Solo qualche anno fa il sindaco di Kirkenes Rune Rafaelsen pronosticava un futuro di grandi speranze per questa cittadina portuale di 10mila abitanti sul Mare di Barents. «Diventeremo la nuova Rotterdam», diceva. E raccontava che a Pechino ritenevano Kirkenes «la loro porta per l'Occidente».
Si riferiva allo sviluppo della Northern Sea Route, la rotta marittima settentrionale che corre lungo le coste artiche russe, «scorciatoia della globalizzazione», per la Cina un'attrattiva alternativa alla via tradizionale via Suez: tempi di percorrenza e costi quasi dimezzati. E Kirkenes era il terminal naturale occidentale, hub europeo per super-tanker e portacontainer provenienti dall'Asia. S'investiva nel porto, negli impianti di stoccaggio, arrivavano compagnie di logistica, giovani manager da Oslo. La condizione del boom erano le buone relazioni col vicino: la Russia comincia a soli dieci chilometri da Kirkenes. Nato di qua, Putin di là.
Sono bastati pochi giorni di guerra in Ucraina e gli effetti della contraerea delle sanzioni hanno lasciato immediatamente sul terreno 350 posti di lavoro: ha chiuso la Kimek, grande cantiere per la riparazione dei vascelli (al 75% russi), sta chiudendo la Barel, che produce illuminazioni per gli Airbus in uno stabilimento della russa Murmansk, sta smantellando la HSS che offre servizi proprio per la Northern Sea Route. «La scommessa non era tanto sulle merci. Il futuro del traffico marittimo dipende dall'esportazione di Lng (gas liquido naturale) dall'Artico russo in Europa.
Ma ora l'unica esportazione sarà verso Oriente, non basta a coprire i costi», dice Kjell Stoknik, direttore della High North Logistic a Kirkenes. «La Cina, che ha già investito oltre 40 miliardi di dollari negli impianti Lng russi, ora se li comprerà proprio». Questo estremo angolo settentrionale d'Europa, che già era il confine più caldo della Guerra Fredda, si sta trasformando in un vero e proprio fronte, strettamente legato alla guerra d'Ucraina, anche se si trova a quasi 4mila chilometri di distanza. Nel Mare di Barents orientale, nella penisola di Kola e nella regione di Murmansk, la Russia ha concentrato quasi tremila testate nucleari e missili atomici a lungo raggio puntati contro Occidente.
La Nato in questi giorni ha avviato qui le più grandi manovre di tutti i tempi, 30mila uomini e 27 paesi coinvolti. Ma c'è anche il fronte energetico, perché qui è dove l'Europa potrebbe vincere o perdere la battaglia del gas. «Il gas del Mare di Barents per l'Europa è l'unica alternativa a quello russo», dice Kjell Giaever, direttore della società Petro Arctic ad Hammerfest. «Qui abbiamo il 60% delle risorse ancora non sfruttate. Nel 2021 abbiamo esportato nell'Unione europea 115 miliardi di metri cubi di gas con le pipeline, secondo noi se si avviassero nuovi sfruttamenti nell'Artico norvegese, e abbiamo almeno 60 nuovi bacini già esplorati, potremmo in poco tempo triplicare l'export e sostituire interamente quel 40% comprato dalla Russia.
Ma a Bruxelles sono ipocriti e miopi, seguono Greta e non le necessità dei cittadini». Kjell si riferisce al recente documento presentato dall'Ue con cui s' impegna a rinunciare per sempre al consumo di petrolio e gas estratto nell'Artico.
«Preferiscono rivolgersi a paesi con scarsi standard di democrazia, come il Qatar o l'Algeria, dove tra l'altro il tributo d'emissioni è enormemente più alto del nostro perché per produrre gas in ambienti caldi richiede l'impiego di molta energia. Oppure addirittura importare dagli Stati Uniti o dall'Australia. Un suicidio».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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