Ecco il modello cinese di lotta alla povertà estrema

Con un equilibrio pragmatico e flessibile fra programmazione e decentramento, finanza pubblica e iniziativa privata, la Cina sta perseguendo efficientemente gli obiettivi proposti dalle Nazioni Unite per il 2030

Ecco il modello cinese di lotta alla povertà estrema

La lotta alla povertà è un obiettivo delle organizzazioni internazionali e in particolare dei Governi dei molti Paesi in Via di Sviluppo (PVS). Le Nazioni Unite hanno collocato al primo posto fra gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile il contrasto alla povertà estrema (definita in prima approssimazione come percepire un reddito inferiore a $1,39 al giorno), stabilendo che entro il 2030 essa debba essere eliminata in tutto il mondo. La Cina è il più grande fra i PVS e nel contempo è la seconda economia mondiale per prodotto interno lordo a parità di potere d’acquisto. Come tale ha la responsabilità - non solo verso i propri cittadini ma anche nei confronti degli altri PVS - di prendere particolarmente a cuore la lotta alla povertà, con l’obiettivo di aiutare altri a conseguire gli ambiziosi obiettivi che essa ha raggiunto.

Si tratta di un duplice obbiettivo: da un lato, eliminare innanzitutto la povertà estrema (e poi anche quella relativa) dalle province più arretrate, e, dall’altro, organizzare forme efficaci di aiuto internazionale allo sviluppo. Quanto al primo obiettivo - affidato dal 2014 ad appositi gruppi di lavoro e a centinaia di migliaia di esperti inviati nelle campagne a gestire l’attuazione dei provvedimenti governativi - il Governo della provincia del Guizhou ha dichiarato nel Novembre 2020 di aver eliminato la povertà estrema da tutte le sue contee, ben dieci anni prima del termine posto dalle Nazioni Unite e nonostante la pandemia. Così negli ultimi 10 anni, sono stati così sottratti alla povertà estrema circa 100 milioni di cinesi.

I risultati ottenuti dalla Cina

Ogni famiglia bisognosa è stata affiancata da un assistente sociale, responsabile per l’uscita dalla povertà assoluta. La Cina, avendo province, prefetture e contee con diversi livelli di sviluppo e un forte tasso di autonomia, ha accumulato nelle condizioni più diverse un patrimonio di esperienze, che possono essere replicate nei PVS: sviluppo di nuove industrie; reinsediamento delle popolazioni delle località isolate; ristori alle aree vulnerabili dal punto di vista ambientale; educazione e formazione; previdenza sociale; assistenza medica; sussidi alla disoccupazione, centri di diffusione tecnologica…

La soglia in yuan per considerare la povertà come "estrema" è stata calcolata sulla base dei dati delle Nazioni Unite, tenendo conto della parità di potere di acquisto. Al di là del fatto contabile, l’enorme trasformazione della Cina, già solamente rispetto alla fine degli anni ’70, è, per un visitatore che vi ritorni dopo molti anni, palpabile anche visivamente: code di automobili anziché di biciclette; grattacieli illuminati in luogo di qualche fioca lampadina; elettronica diffusa dovunque… (e tutto questo in un’era in cui, in Occidente, non si fa altro che parlare purtroppo di "nuove povertà").

Per quanto riguarda, invece, l’aiuto internazionale allo sviluppo, la Cina aveva tradizionalmente un sistema di sostegno ai PVS che combinava una complessa gamma d’interventi e andava perfino al di là dei parametri internazionali. Era stato però finora difficile quantificare il flusso degli aiuti verso i singoli Paesi e confrontarlo con quello di altri donatori. Così nel 2018 il Paese si è dotato di un’agenzia specializzata di aiuto allo sviluppo, finalizzata a una gestione mirata e trasparente, che permette anche una più precisa quantificazione.

Il modello cinese

Per tutti i Paesi l’ostacolo principale è costituito dal carattere sempre più complesso, burocratico e frazionato delle procedure di aiuto (che avevo avuto modo di approfondire in quanto funzionario europeo), il quale accresce i costi degli interventi e ne disperde l’efficacia. Per esempio, l’aiuto europeo è suddiviso fra quello degli Stati membri e quello dell’Unione. Quest’ultimo è stato organizzato in linea di principio in base a cicli quinquennali di programmazione (ma, in realtà, più lunghi), che coinvolgono l’Unione, i Governi, gli Enti finanziari, consulenti, funzionari, imprese, e che, per loro natura, possono dare risultati concreti solo dopo molto anni, disperdendosi gran parte delle risorse fra costi di funzionamento e consulenze esterne.

L’aiuto cinese, già anche soltanto per il suo carattere unitario, è relativamente più semplice e rapido. Con la Belt and Road Initiative (BRI) esso si è inserito in un più ampio quadro istituzionale di collaborazione internazionale, di cui sono parte anche la Banca Asiatica per le Infrastrutture (AIIB, a cui partecipano moltissimi Paesi fra cui l’Italia), il Multilateral Cooperation Center for Development e il Silk Road Fund. Politici ed economisti stanno dibattendo circa l’efficacia nel lungo periodo dell’aiuto internazionale e di quello cinese in particolare. Le opinioni possono essere diverse, ma alcuni fatti sono innegabili: di fronte all’esplosione demografica dei Paesi afro-asiatici, e soprattutto africani, tale progresso economico, innegabile in termini assoluti, non sarebbe però forse sufficiente a garantire la sopravvivenza della nuova popolazione.

Il modello cinese, con un equilibrio pragmatico e flessibile fra programmazione e decentramento, finanza pubblica e iniziativa privata, sta perseguendo efficientemente gli obiettivi proposti dalle Nazioni Unite, è oggetto di studi per capire i motivi del suo successo ed eventualmente imitarli. Secondo la Banca Mondiale, già solo gli investimenti legati alla BRI permetteranno a 7.6 milioni di persone di uscire dalla povertà estrema, e dalla povertà relativa a 32 milioni. Nell’ambito del MOU con la Cina siglato nel 2019 sulla BRI, l’Italia aveva concordato di presentarsi insieme alla Cina per progetti di sviluppo in una serie di Paesi. A sua volta, l’Unione Europea ha rinnovato proprio ora gli accordi di Cotonou, che disciplinano e coordinano gli aiuti europei ai Paesi del Centro-America, e Africa e Pacifico (ACP).

Nel fare ciò essa potrebbe, e forse, dovrebbe, tener conto dell’esperienza cinese, e, per il bene dei Paesi beneficiari, cercare di coordinare gli interventi.

L’autore, Riccardo Lala, è curatore dell’opera collettanea L’Europa sulle vie della Seta, autore del libro Da Qin e amministratore delegato di Alpina editrice

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