Gli esperti: "Rischi foreign fighter sottovalutati"

"Gli attacchi coordinati di Parigi - ha spiegato al New York Times Juliette Kayyem, ex assistente di Barack Obama per la sicurezza interna - smonta la narrativa del lupo solitario che abbiamo costruito finora" e svela un sistema articolato, in cui seguaci locali dell’Isis o di altri gruppi jihadisti supportano e si coordinano con terroristi "navigati"

Gli esperti: "Rischi foreign fighter sottovalutati"

La possibile presenza di foreign fighters tra gli attentatori che hanno colpito Parigi venerdì scorso fa scattare l’allarme su un fenomeno che sarebbe finora stato sottovalutato dai governi occidentali. È l’analisi di molti esperti di sicurezza, secondo i quali la complessità dell’attentato di Parigi dimostra come la presenza dello Stato islamico in Europa non sia più solo una questione di "lupi solitari" ammaestrati sul web, ma anche e sempre più di jihadisti indottrinati e ben addestrati che rientrano dai campi di battaglia in Siria e in Iraq.

"Gli attacchi coordinati di Parigi - ha spiegato al New York Times Juliette Kayyem, ex assistente di Barack Obama per la sicurezza interna - smonta la narrativa del lupo solitario che abbiamo costruito finora" e svela un sistema articolato, in cui seguaci locali dell’Isis o di altri gruppi jihadisti supportano e si coordinano con terroristi "navigati". Il numero di foreign fighters è oggetto di dibattito.

La scorsa settimana Yevgeny Sysoyev, vice capo dei servizi di sicurezza russi (l’ex Kgb), ha parlato di 80.000 combattenti arrivati nei due paesi arabi da 80 Stati. Tra questi, 30.000 sarebbero in Iraq e 50.000 in Siria. Ben diversi, ma sempre allarmanti, i dati contenuti in un recente studio del Soufan Group, che parla di 20.000 combattenti stranieri da 81 paesi, di cui 5.000 arriverebbero dall’Europa.

Nello studio del Soufan Group, il dato più preoccupante riguarda i jihadisti rientrati in patria. Su 700 britannici partiti per la Siria e l’Iraq, ad esempio, circa la metà avrebbe già fatto ritorno nel Regno Unito. In questo senso, secondo lo studio, la guerra siriana "è l’incubatore di una nuova generazione di terroristi", che mette il mondo intero nelle condizioni di "dover fare i conti con anni di terrorismo".

Anche l’International Centre for the Study of Radicalisation and Public Violence (Icrs), in un rapporto pubblicato all’inizio dell’anno, parlava di 20.000 foreign fighters. La Francia è il paese europeo che ne fornisce il maggior numero (oltre 1.200). Il Belgio è quello che ne fornisce la percentuale maggiore rispetto alla sua popolazione: 450 secondo l’Icrs, 270 secondo il ministero belga degli Interni, il quale ritiene che 129 abbiano fatto ritorno in patria. Dati così discordanti svelano un altro grave problema: i servizi di sicurezza dei vari paesi non sono in grado di coordinarsi, di condividere e leggere in modo uniforme i dati e, di conseguenza, di esercitare un controllo efficace al fenomeno dei foreign fighters. Questo è emerso chiaramente in una riunione internazionale tra funzionari addetti alla sicurezza dei trasporti che si è svolta il 27 ottobre scorso a Dublino. La conclusione a cui si è arrivati in quell’occasione è che gli sforzi per bloccare il transito dei jihadisti da un paese all’altro sono finora falliti.

A settembre del 2014 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione che impone a tutti gli stati membri una serie di iniziative contro il fenomeno dei foreign fighters, tra cui la raccolta e la condivisione di informazioni, ad esempio sui passeggeri degli aerei. Ma secondo Hassan O. Baage, della Commissione antiterrorismo delle Nazioni Unite, solo un quarto dei paesi membri ha adottato il sistema di raccolta dati raccomandato dalla risoluzione. A Dublino, Baage ha aggiunto che solo 12 paesi dispongono oggi di database sufficientemente sofisticati che permettano una rapida valutazione dei rischi connessi a un passeggero.

Vari i motivi di questa "negligenza", dalle leggi sulla privacy ai costi elevati. Lo scorso mese, la commissione Sicurezza interna della Camera dei Rappresentanti di Washington ha adottato un rapporto in cui si ammette che "si è finora ampiamente fallito nel tentativo di impedire a cittadini americani di viaggiare oltre oceano per unirsi ai jihadisti. Almeno 250 americano hanno tentato di raggiungere le zone di conflitto in Siria e in Iraq e le autorità sono riuscite a fermarne solo una piccola parte. Diverse decine sono anche riuscite a fare ritorno in America".

I motivi di questo fallimento sono vari, negli Stati Uniti come in Europa. I foreign fighters sono diventati più abili ad eludere i controlli, ad esempio facendo viaggi con molte tappe intermedie. Ma secondo Tony Tyler, direttore generale dell’Associazione internazionale per il trasporto aereo, c’è anche una grossa responsabilità dei governi, che in materia di condivisione delle informazioni si ostinano a usare standard molto diversi. Tyler, ad esempio, ha lanciato l’allarme su una direttiva dell’Unione europea che potrebbe autorizzare i 28 paesi del blocco a usare ognuno un diverso sistema di registrazione dei passeggeri, invece di uno comune. "Come può questa massa di dati non standardizzati - si è chiesto, parlando alla riunione di Dublino - essere analizzata con un certo grado di efficacia?". Molto spesso, secondo Matthew Finn, direttore della Augmentiq, società di consulenza in materia di sicurezza sui confini, i vari stati non sono neanche in grado di analizzare i dati raccolti da loro stessi.

A Dublino, Finn ha citato il caso delle tre studentesse britanniche partite da Londra all’inizio dell’anno per raggiungere la Siria, passando per la Turchia. C’erano dati a sufficienza per fermarle, ma nessuno è stato in grado di utilizzarli.

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