La Nato lascia la Libia in balia di violenze e vendette

La guerra in Libia della Nato si è conclusa ieri a mezzanotte e molti esultano per la «missione di successo». Pochi si preoccupano delle rappresaglie e vendette dei ribelli al potere, secondo l’antico copione di guai ai vinti. Non tutti nel Consiglio transitorio (Cnt) che governa a Tripoli sono contenti del passo indietro dell’Alleanza atlantica. Il primo ministro dimissionario, Mahmoud Jibril, ha addirittura sventolato lo spauracchio del ritrovamento «di ordigni nucleari» di Gheddafi. Poi si è corretto parlando di armi chimiche nella speranza che gli spauracchi servano a mantenere la copertura armata della Nato. Il suo successore Al Keib dovrà traghettare la Libia al voto in otto mesi.
Il segretario generale dell’Alleanza, Anders Fogh Rasmussen, sbarcato ieri a sorpresa a Tripoli, è stato lapidario: «Tocca ora alle Nazioni Unite essere in prima linea nell’assistenza internazionale alle nuove autorità libiche». L'Onu, però, non ha deciso ancora nulla. Nel frattempo continuano vendette e rappresaglie. I quasi 7 mila prigionieri di guerra rinchiusi in carceri improvvisate in tutta la Libia, dove languono senza accuse subendo spesso abusi, saranno il primo test delle nuove autorità. Uno dei casi più controversi riguarda Abu Zaid Omar Dorda, ex rispettato ambasciatore di Gheddafi all’Onu, poi nominato a capo dei servizi segreti per l’estero. Arrestato due mesi fa si era dimostrato disponibile a collaborare con il Cnt, secondo il nipote Hamza Alì Dorda, che ha lanciato un appello per salvare lo zio. L’ex di Gheddafi sarebbe stato ripetutamente interrogato e maltrattato da diversi gruppi di miliziani. Pochi giorni fa è volato da una finestra spezzandosi tutte e due le gambe. Il Cnt parla di tentativo di suicidio, ma i parenti giurano che i ribelli vogliono ucciderlo. «Le carceri sono piene di prigionieri colpevoli solo di aver appoggiato Gheddafi, che subiscono abusi terribili» denuncia il nipote di Dorda. All’inizio aveva parteggiato per i ribelli, ora sostiene «di sentirsi disgustato».
Human rights watch (Hrw) ha lanciato l’allarme sulle vendette a cominciare dal caso di Tawarga, una cittadina di 30mila abitanti vicino a Misurata. I ribelli l’hanno saccheggiata e incendiata spazzando via tutta la popolazione, come ai tempi della pulizia etnica in Bosnia. Gli abitanti sono libici dalla pelle nera che in parte hanno combattuto fra le fila governative durante l’assedio di Misurata. A Sirte, l’ultimo bastione di Gheddafi, sono state raccolte le prove di esecuzioni sommarie di almeno 53 prigionieri da parte dei ribelli. A Bani Walid, caduta poco prima, continuano le razzie, a tal punto che i giovani della tribù Warfalla vorrebbero dar vita alla guerriglia.

Anche in altre città dell’entroterra, come Jemel, sparisce gente sospettata di simpatie per Gheddafi. Talvolta tornano cadaveri con evidenti segni di torture e il loro clan, che magari aveva appoggiato inizialmente la «rivoluzione», giura vendetta.

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