Il cieco male, la sofferenza e il controllo: così Turetta ha seminato morte

Nella vita esistono alcuni grandi misteri. Tra questi primeggiano, il male, la sofferenza e la morte. Tutti elementi che troviamo anche in questa storia. Ed è della sofferenza che desideriamo parlare adesso

Il cieco male, la sofferenza e il controllo: così Turetta ha seminato morte
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Nella sua confessione, Filippo Turetta ha affermato di aver ammazzato Giulia Cecchettin perché la voleva solo per sé. Diceva di amarla, ma era un non amore. Si trattava infatti di un sentimento morboso - fatto di possesso, come indica lo stesso aggettivo usato dal killer: "mia" - e di gelosia. Doveva esser sua, come una cosa. Nonostante questo, Giulia si preoccupava per lui. Aveva paura che, sparendo, Filippo potesse farsi male. La ragazza raccontava infatti alle sue amiche che il suo ex fidanzato era depresso, che aveva smesso di mangiare, che passava le giornate a guardare il soffitto e che pensava solo ad ammazzarsi. Il futuro killer soffriva, in modo patologico, per questa separazione. "Mia o di nessun altro". Ed è stato quel dolore a provocare altro dolore. Prima fisico, in Giulia, con un'agonia straziante. Poi alla famiglia Cecchettin e ai suoi stessi genitori, che hanno fatto fatica ad incontrarlo.

Nella vita esistono alcuni grandi misteri. Tra questi primeggiano, il male, la sofferenza e la morte. Tutti elementi che troviamo anche in questa storia. Ed è della sofferenza che desideriamo parlare adesso.

Per gli antichi greci, il dolore dell'animo era una costante della vita e, per parlarne, usavano la parola pathos. Era un compagno fedele che serviva a crescere e a maturare. Per Platone il dolore dell'anima è legato a doppio filo con il corpo, tanto da scrivere nel Fedone: "Ogni piacere e ogni dolore, come se avesse un chiodo, inchioda e fissa l'anima nel corpo, la fa diventare quasi corporea e le fa credere che sia vero ciò che il corpo dice essere vero". Il dolore, quando è intenso, ci può infatti ingannare. Ci può portare alla disperazione, ovvero a pensare che non ci siano più possibilità di uscita. Che tutto sia ormai perduto. Ma non è così. Si può infatti reagire ad esso, secondo i greci: coltivando le virtù e purificandosi. Ed è proprio per andare incontro a quest'ultima necessità che nasce la tragedia greca. È in essa che vengono messe in scena il dolore, la morte e la sofferenza. Gli spettatori si immedesimano, soffrono insieme agli attori. Si identificano in loro. Imparano a provare dolore e a reagire ad esso. Si commuovono, si purificano e, infine, crescono.

Il Cristianesimo, con la morte di Gesù in croce, cambia questa prospettiva. La ribalta. Il Figlio di Dio si sacrifica per molti e muore provando atroci sofferenze. Il Christus patiens diventa il modello da seguire. La sofferenza trova ora un senso. Diventa un'occasione di espiazione. Non è facile ragionare così. È infatti facile abbandonarsi alla rassegnazione e allo sconforto. Ma c'è un libro, scritto da padre Frédéric Rouvier, Saper soffrire (Edizioni Fiducia), che può aiutarci a comprendere meglio questa prospettiva di fede, ovvero di vita.

Per farlo, dobbiamo partire da un presupposto: non siamo stati creati per sbaglio. Se siamo al mondo è perché abbiamo un fine, che è buono. E tutte le difficoltà che ci si parano davanti vanno lette in quest'ottica: esiste un progetto positivo su di noi. Possiamo accettarlo o rifiutarlo perché siamo liberi. A tal proposito, padre Rouvier cita un passo di sant'Agostino, il quale "osserva che sul Calvario tre erano gli uomini appesi alla croce: uno che dà la salute, uno che la riceve, e un terzo che la perde". Immaginiamo quel momento. Ci sono tre uomini, tutti nella stessa condizione. Eppure ognuno dei tre vive quegli istanti in modo diverso. Cristo sta compiendo il compito per il quale è stato mandato sulla terra. Il buon ladrone, Disma, sfrutta quell'occasione per salvarsi. Gestas per condannarsi. Sono gli ultimi due i modelli che meglio ci rappresentano di fronte alla sofferenza. Possiamo scegliere come viverla. Se darle un senso oppure no.

Se abbracciare la croce o maledirla. Se far fruttare il dolore o provocarne altro. È una questione di libertà, ovvero di adesione al bene al posto del male. Una prospettiva che cambia tutto. E che rende nuove tutte le cose.

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