«Nel mio grande Brasile il mitico Garrincha era più decisivo di Pelè»

Svezia ’58 nel ricordo di Altafini: «In ritiro ci tormentavano con i test di intelligenza, come fossimo matti. E la pelle nera stupiva le ragazze»

Paolo Brusorio

da Milano

A Belfast avevamo portato spaghetti e bottiglie di Chianti. Mancava solo la squadra. Così, per la prima volta l'Italia non va alla fase finale dei mondiali battuta dall'Irlanda del Nord per 2-1 e dalle scelte di un ct, Alfredo Foni, incomprensibili per la critica dell'epoca: imbottita di oriundi (da Schiaffino a Ghiggia, da Montuori a Da Costa) quella nazionale finì per perdere l'anima oltre al biglietto per la Svezia. Dove ci vanno sedici squadre: c'è l'Inghilterra ancora scioccata dalla tragedia aerea che ha decimato il Manchester United; la Svezia organizzatrice che richiama a colpi di referendum popolare i senatori professionisti un po' in là con gli anni (Liedholm ne aveva 37, Gren 38 e aveva già smesso da due stagioni) e c'è il Brasile che ai pilastri (i fratelli Santos, Didì e il capitano Bellini) affianca una covata di ragazzini: Pelè, Garrincha e Altafini. È la prima volta di un Paese vincente fuori dal proprio continente: 5-2 per il Brasile in finale, Liedholm, in campo rapato a zero per scommessa, segna il primo gol, poi Vavà, Pelè (doppiette) e Zagallo e «raggio di luna» Selmosson fanno il resto. Miglior giocatore del torneo è Didi, guardava la palla e diceva «è lei quella che deve correre».
Racconta José Altafini: «Siamo stati cinque mesi in ritiro in montagna, a Campos de Jordao, regione del Minas Gerais. Eravamo in trentatré, ci fecero ogni tipo di esame: vista, denti, muscoli. Io e Pelè fummo gli unici a non aver problemi odontoiatrici, molti furono operati di appendicite. Ci tormentavano con i test di intelligenza: dadi, cubi, disegni. Come fossimo dei matti. Il preparatore atletico era Amaral, un militare che poi arrivò alla Juventus».
Allenava Vicente Feola. Oriundo napoletano, venne in Italia per studiare la Fiorentina di Bernardini e poi modellò il Brasile.
«Feola era un grasso bonaccione, capiva di calcio, ma passava ore a spiegarci cose noiosissime, tipo come battere un fallo laterale. Assomigliava a Rocco, ma era meno burbero».
Come fu l'impatto con la Svezia?
«Eravamo in ritiro a Hindas, vicino a Göteborg. Andavamo in città in autostop. E lì scoppiava il finimondo...».
Scusi?
«Le ragazze svedesi impazzivano per quelli con la pelle nera. Si avvicinavano e passavano il dito per vedere se quel colore veniva via... Io ero il più sfigato: da bianco, non interessavo. Pelè fece colpo su una svedese inusuale, una morettina. Dissero anche che Garrincha avevo messo incinta una ragazza...».
Fu l’esordio di Pelè nella coppa Rimet: ricordi?
«Siamo cresciuti insieme, lui nel Santos e io nel Palmeiras. Nelle sfide di campionato faceva sempre un gol più di me. Aveva 17 anni, ma era già maturo. Più di me sicuramente...».
Parliamo di Garrincha, l'altro fenomeno.
«Era poco intelligente, Feola non gli spiegava gli schemi tanto non li avrebbe capiti. Ma in campo gli veniva tutto naturale, quel mondiale l'ha vinto lui. Pelè ha contribuito al titolo, Didì era il leader, ma Garrincha ha risolto i problemi».
E Altafini?
«Ero titolare con Pelè, poi nell'esordio con l'Austria su un campo di patate mi sono storto la caviglia. Facevo fatica a stare in piedi, contro l'Inghilterra sbagliai due gol. Feola mi mise fuori con la Russia e Vavà, il mio sostituto, fece una doppietta. Tornai contro il Galles, ma sembrava il Padova di Rocco: impossibile sfondare. Fu giusto scegliere Vavà, uno peitudo si dice in Brasile. Forte, dal gran fisico. A me restano un po’ di rimpianti...».
Quali?
«Non aver capito l'importanza di vincere un mondiale. Ancora adesso quando vedo gli altri alzare la coppa, mi prende la malinconia. Ho sbagliato anche a giocare da oriundo con l'Italia, non l'avessi fatto avrei vinto altri tre mondiali... E una volta qui da voi, non dovevo nemmeno cambiare il nome: io ero Mazola, in Brasile nessuno mi conosceva come Altafini».
Capocannoniere fu Fontaine: 13 gol, ancora record. Che tipo di attaccante era?
«Potentissimo. Quella Francia aveva tre giocatori fantastici: Kopa, Vincent e appunto Fontaine. Uno cui era difficile togliere la palla, un tipo alla Toni».
Fu l'esordio dell'Urss di Jascin: davvero un portiere fenomeno?
«Contro di noi non fece miracoli. Ma di quella squadra conoscevamo tutto: si allenavano a un chilometro da noi e Didì e Nilton Santos, due con la testa già da allenatore, si nascondevano nella foresta per spiare i loro schemi».
Quanti soldi vi fruttò quella vittoria?
«Soldi? Prenda nota: un piccolo televisore, una bicicletta, un frigorifero da picnic, una patacca di orologio placcato oro dalla rivista Cruzeiro e un terreno nella regione del Pantanal. Djalma Santos lo vide, ci disse di lasciar perdere. Registrarlo costava troppo...».
Rispetto agli altri, il «suo» Brasile che posto occupa?
«I miei idoli restano quelli del 1950. Poi ci siamo noi e la nazionale del '70, con quattro numeri dieci in campo.

Quelle del '94 e del 2002 si assomigliano, più operaia la prima, ma entrambe modellate su un giocatore: Romario e Ronaldo. Quello dell'82 invece era forte, ma giocava sui tacchi a spillo. E per questo perse contro l’Italia».
(3.continua)

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