«NelI’inferno di Haifa sotto una pioggia di missili e bombe»

Le 8 vittime, operai al lavoro, straziate da biglie d’acciaio. Venti i feriti

Gian Micalessin

da Haifa

Un boato e una pioggia di morte. L’istantanea fatale è in quel tetto squarciato. È esploso là, otto metri più sopra, tra i lucernari di plexiglas e le travi d’acciaio. Loro non hanno fatto neanche in tempo ad alzare la testa. Sono rimasti prigionieri nel mattatoio di una piattaforma stretta tra due treni in avaria. Una pioggia di fuoco e di biglie d’acciaio li ha straziati, feriti, uccisi. Erano 35, piegati sul lavoro alle 9.05 di mattina. Otto sono morti. Gli altri feriti.
Certo un minuto prima l’allarme è suonato, «ma se stai lavorando nel deposito della ferrovia che fai - si chiede Meir -? Mica lasci tutto e scappi». Meir Hofer, 56 anni, avvocato tra i più famosi di questa Haifa ferita, infuriata, sconfortata, gira e rigira tra le rovine del deposito maledetto. Neanche lui ieri mattina ha dato retta agli avvertimenti. L’allarme scatta, ma lui resta sulla poltrona dell’ufficio, vede le segretarie e i colleghi correre ai rifugi. Alza la mano, indica due pennacchi di fumo, un chilometro più in là. «È la raffineria più importante del Paese, hanno sbagliato di un chilometro, per un missile è un nulla». I missili sparati dagli Hezbollah sono tre o quattro, due dei quali sicuramente siriani.
Tra i quartieri di Haddar e la vetta di Carmiel, sulla cima della montagna affacciata al blu scintillante del Mediterraneo, non sono in molti a condividere la temeraria incoscienza di questo avvocato con un passato da paracadutista nell’inferno libanese. Haifa è un deserto di pietra bianca calcinata dal sole, una conchiglia senza vita nel verde della montagna. Chi non vaga nel nulla è scomparso nel sarcofago di cemento dei rifugi, attende il domani e notizie migliori. Meir no. Lui ha dentro la rabbia di chi lo aveva detto.
«Non era una recita, avevano le katiusce e i missili sin dal giorno dopo il nostro ritiro, non hanno sparato al primo atto, non hanno sparato al secondo, ma alla fine lo hanno fatto. Stupidi noi a illuderci che potesse non succedere». Meir ammette: «Sono rimasto nel Likud anche quando Sharon ci ha lasciati, sono uomo di parte, ma chiedete agli altri e sentirete». Gli altri sono gli ex fratelli Ventura. Daniele e Ghioran, 59 e 53 anni. Dentista il primo, ingegnere il secondo. Italiani, fiorentini, con il cognome cambiato in un più ebraico Ilan. Erano militanti di sinistra, figli del movimento dei kibbutzim. Oggi parlano la stessa lingua dell’avvocato del Likud.
«Gli arabi non hanno ancora capito che la guerra non ci divide, ma ci unisce - sbotta il dentista Dani -. Haifa oggi è una città sola, nessuno qui è disposto ad andarsene né a farsi terrorizzare, ora siamo tutti con il nostro esercito». Ghioran è inviperito per le telefonate di Romano Prodi al presidente siriano Bashar Assad. «A cosa serve chiamare il presidente di un Paese protettore di un movimento terrorista? Il risultato è davanti agli occhi di tutti. Dopo quella telefonata un missile siriano regalato a Hezbollah ha ucciso otto nostri concittadini, complimenti».
In questa città dove musulmani ed ebrei continuano a vivere a fianco a fianco, l’unica voce fuori dal coro resta quella del vice sindaco arabo Whalid Khamis. «Ho il cuore diviso, i miei fratelli corrono gli stessi pericoli dei nostri concittadini ebrei, tanti arabi israeliani sono stati feriti dai missili caduti nei villaggi del nord, ma non posso chiudere gli occhi. Per me è colpa del governo israeliano, colpa della reazione spropositata contro i civili del Libano». Parla sottovoce, teme di essere sentito dagli altri consiglieri riuniti nell’aula comunale in attesa del sindaco e del ministro della Difesa Amir Peretz.
Whalid sale sul palco delle autorità, si siede al fianco del generale Gery Gershon, responsabile delle Difesa Civile israeliana.

L’implacabile avvocato Hofer lo fulmina con una battuta. «Questa è la nostra democrazia, un generale al fianco di un rinnegato, puoi avere idee diverse, ma stare con il nemico in tempo di guerra per me significa solo tradire».

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