Nell’Azerbaijan può crescere l’Islam moderato

Massimo Introvigne

Cento anni fa parecchi islamologi notavano i segni di un risveglio fondamentalista nell’islam sunnita, ma vedevano invece nel mondo sciita, che aveva subito a lungo l’oppressione e la violenza, una speranza di pace e di dialogo. Uno dei soliti abbagli in cui cadono spesso gli studiosi? Certo, oggi si sente dire «sciiti» e si pensa subito all’Iran khomeinista. Ma negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale - molto prima che Khomeini elaborasse la sua sintesi mortale di messianismo sciita, fondamentalismo di origine sunnita e teorie rivoluzionarie occidentali - un Paese sciita indipendente dava al mondo il primo esempio di un capitalismo costruito sul petrolio dove collaboravano in pace imprenditori musulmani, ebrei e cristiani, costruendo un’effimera ma scintillante Svizzera del Caucaso. Si trattava dell’Azerbaijan la cui capitale Bakù, il maggior porto petrolifero internazionale agli inizi del Novecento, fioriva di ville, teatri e perfino di un casinò considerato il secondo del mondo dopo Montecarlo.
Sull’importanza petrolifera e religiosa dell’Azerbaijan un comunista georgiano indirizzò un rapporto a Lenin che, appena scoppiata la rivoluzione bolscevica, mise Bakù a ferro e fuoco, facendo almeno cinquemila morti e riducendo il pacifico Stato sciita a una colonia sovietica. Il suo nome era Josif Stalin, e il mondo ne avrebbe ancora sentito parlare a lungo.
Stalin continuò a temere per tutta la vita la rinascita in Azerbaijan di un’opposizione sciita. Con i suoi soliti spostamenti di popoli, moltiplicò il numero di sunniti in Azerbaijan: oggi sono il 20%, ma il 75% rimane sciita. Demolì la maggioranza delle moschee, lasciando in piedi la sola storica moschea Juma a Bakù, che Breznev trasformò nel 1967 nel Museo Nazionale del Tappeto. Creò un Ufficio degli affari musulmani che era di fatto un’articolazione del Kgb. Dell’Ufficio (e del Kgb) hanno fatto parte per cinquant’anni membri della famiglia Aliyev che, diventato l’Azerbaijan indipendente dopo il crollo dell’Unione Sovietica, sono andati al potere con il colpo di Stato del 1993 di Heydar Aliyev che nel 2003, morente, ha lasciato il potere al figlio Ilham, dopo una sequela di elezioni caratterizzate da intimidazioni e brogli. Nelle elezioni del 6 novembre Ilham dichiara di avere vinto, ma ci sono stati nuovi brogli, in alcuni casi clamorosi.
La situazione è tesa, e non si può escludere una rivoluzione pacifica di tipo ucraino o kirghiso. Ma sarà decisivo l’atteggiamento dell’Occidente, dove non manca chi sostiene Aliyev, affermando che almeno controlla il fondamentalismo islamico. Tutti i dittatori dell’Asia Centrale agitano lo spauracchio del terrorismo, ed è vero che nel Paese ci sono un centinaio di militanti sunniti di Al Qaida e qualche migliaio di Hezbollah sciiti manovrati dall’Iran. Tuttavia la maggioranza degli sciiti azeri è moderata, e ha come punto di riferimento Ilgar Ibrahimoglu, fautore del dialogo inter-religioso e imam della moschea Juma, riaperta nel 1992 ma che Aliyev ha chiuso nel 2004 e vuole di nuovo trasformare in museo del Tappeto. I musulmani moderati, sciiti e anche sunniti che guardano al modello turco, sono al cuore dell’opposizione contro Aliyev.

L’Occidente può salvare quest’ultimo, che comunque ha finora garantito l’ordine pubblico e il passaggio degli oleodotti fino al porto di Bakù. Ma se alla fine in Azerbaijan andasse al potere un islam sciita moderato, l’esempio azero potrebbe costituire una lezione e una speranza per l’Iran.

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