Il pensiero è linguaggio? Il linguaggio è pensiero? La filosofia ha sempre cercato, fin dalle sue origini, una risposta a questi interrogativi. Innanzitutto, un pensiero, per poter essere tale, ha bisogno di un linguaggio? Sì. Qualora s'intenda esprimerlo, deve poter essere tradotto in una serie di parole che appartengano al linguaggio di chi ha quel pensiero. Ma la questione è un'altra: quando non si intende esprimere un pensiero, questo esiste anche senza parole che lo enuncino? Il buon senso risponderebbe affermativamente. Non si dice «assorta nei suoi pensieri» di una persona che, per esempio, seduta in poltrona appare assente, estranea alla realtà, appunto, presa dai suoi pensieri? È così; ma si può anche sostenere che proprio quei pensieri possono rimanere vaghi, fluttuanti finché non venga dato loro uno schema... un linguaggio. Così, con questa sintesi di quasi due millenni e mezzo di filosofia occidentale, veniamo alla «ministra». Eravamo abituati al termine «ministro», maschile, per denotare anche la stessa funzione al femminile. Va tutto bene finché non c'è chi si lamenta, osservando che il linguaggio non esprime correttamente la realtà di un pensiero, e cioè che ci sono ministri non solo maschi ma anche femmine. La correzione appare doverosa: si introduce il femminile, così il pensiero di una stessa realtà maschile e femminile potrà essere espressa con due parole, una maschile e una femminile. Ne consegue una prima questione: perché e cosa hanno portato a quella correzione? Potrebbe essere sufficiente rispondere che la presenza ormai di molti ministri donne ha richiesto l'introduzione del femminile per denotare quella professione? La risposta è insoddisfacente. Nel linguaggio si custodisce anche il senso di un'abitudine. Ma è proprio questa abitudine che la cultura tende a superare: la parola al femminile ha la precipua funzione di sottolineare la presenza della realtà femminile, dimenticata da un linguaggio al maschile che, per abitudine, sottintendeva il femminile. La seconda questione è la seguente. Le nuove parole introdotte al femminile, per esempio «ministra», cambiano una visione culturale, riallineando la presenza maschile a quella femminile? La risposta è affermativa: il linguaggio faciliterà a pensare al femminile determinate realtà che venivano espresse soltanto al maschile. Si può però aggiungere che per cambiare il fondamento di un modo di pensare c'è bisogno della complessità della cultura di una civiltà che non si ritrova soltanto nel suo linguaggio: non è sufficiente aggiungere una parola al femminile per vedere modificata la cultura di un popolo. Terza questione, quella dell'identità, che lascio aperta. A questo punto, si può supporre che tutte le parole che esprimono un'attività maschile possano essere anche dette al femminile, se tutto ciò che fa l'uomo può farlo anche la donna. Scelgo una parola che esprime il pensiero di una realtà di un unico genere, femminile. Per esempio, la parola «balia».
Arriverà il momento che potremmo dire quella parola anche al maschile? Oppure sparirà perché non potrà essere detta al maschile, appunto perché quel ruolo è e rimarrà soltanto femminile? Lascio ai lettori il compito di trovare una parola maschile che denoti una realtà esclusivamente maschile. Conclusione: «la parità di genere linguistica» - maschile, femminile - finirà per abolire tutte le parole che non possono essere pensate sia al maschile che al femminile?
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