Nuove accuse a Penati Pd, tangenti alla gola

Da ieri Penati è formalmente accusato per l'acqui­sto da parte della Provincia di Mila­no, nel 2005, del 15 per cento delle quote della società Serravalle allo­ra detenute dal costruttore Gavio

Nuove accuse a Penati 
Pd, tangenti alla gola

Nuova accusa di corru­zione per il braccio de­stro di Bersani. Da ieri Filippo Penati è infatti formalmente accusato per l'acqui­sto da parte della Provincia di Mila­no, nel 2005, del 15 per cento delle quote della società Serravalle allo­ra detenute dal costruttore Gavio. Acquisto effettuato a un prezzo astronomico, assolutamente fuori mercato, che ha generato un fiume di milioni di euro che secondo i ma­­gistrati è in parte rientrato anche nelle tasche dei compratori, cioè di esponenti della sinistra. Tangenti, insomma, generate con lo sperpe­ro di denaro pubblico. Il fatto è che ci sono voluti sei anni per fare luce su ciò che da subito l'allora sindaco di Milano Gabriele Albertini aveva definito uno scandalo. Ne parlò inutilmente anche con i magistrati di Milano (e con Di Pietro), la denuncia scomparve nei meandri del­la procura, la stessa che invece si allerta al massimo livello per insegui­re e spiare le ragazze che varcano il cancello della residenza privata di Silvio Berlusconi.

Sarà un caso in­fatti, ma l'inchiesta ha preso corpo solo quando la faccenda è uscita dall'ombrello protettivo dei pm mi­la­nesi e quasi per caso è finito sui ta­voli di quelli di Monza. Evidentemente le toghe di Mila­no sono più interessate ai fatti priva­ti tra cittadini che liberamente tra­s­corrono una serata insieme che al­lo scempio di soldi pubblici. Soprat­tutto se di mezzo ci sono i vertici del maggiore partito della sinistra. Chissà che cosa avremmo scoper­to di bello se i telefoni di Penati e Bersani a suo tempo fossero stati messi sotto controllo e le intercetta­zioni pubblicate. Cose interessan­ti, a occhio e croce, ma non lo sapre­mo mai, perché non è stato fatto, a differenza di ciò che accade per il premier il cui telefono è pratica­mente, e illegalmente, sotto con­trollo permanente. Che molte procure applichino la giustizia a fini politici è da ieri pro­vato anche dalle dichiarazioni di duemembridell'opposizione.

But­tiglione ha infatti proposto uno scambio: le dimissioni di Berlusco­ni in cambio di un salvacondotto giudiziario. E il pd Gentiloni ha con­fermato: se il premier lascia, l'acca­nimento giudiziario non servireb­be più. Dunque è vero. I pm si muo­vono non in nome della legge ma in nome dell'opposizione per fare ca­dere il governo. Un ricatto in piena regola: ti inseguiamo, bracchiamo ovunque a meno che tu non ti arren­da. Per questo, di fronte a un accani­mento giudiziario, diventa persino legittimo un accanimento difensi­vo.

Berlusconi non sta cercando di fuggire dalla giustizia ma da dei kil­ler. Che lo tengono nel mirino attra­verso l’abuso delle intercettazioni, nonostante la legge lo vieti.

Così non ci si stupisce quando si legge sull’ Espresso che il premier avreb­be consigliato al faccendiere Lavi­toladinonrientrareinItalia: nessu­no scandalo perché lo «scoop»è già stato smentito e soprattutto per­ché, anche se fosse vero, il suggeri­mento non farebbe una piega. Ad eccesso di accusa, eccesso di dife­sa. Perché Lavitola non finirebbe davanti a magistrati sereni e impar­ziali, ma a gente che ha già scritto la sentenza a prescindere dai fatti e dalle regole.

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