A Obama bastano 25 superdelegati per dare scacco matto alla Clinton

Con Kentucky e Oregon il senatore dell’Illinois conquista la maggioranza dei rappresentanti eletti nelle primarie

da Washington

Ancora qualche giorno, massimo una settimana, e il lungo capitolo della maratona elettorale americana che porta il nome di Hillary Clinton potrà essere archiviato, anche se certo non dimenticato. Barack Obama ha varcato il primo dei numerosi traguardi che una combinazione fra le bizzarrie del sistema elettorale e alcuni eventi personali hanno costruito sulla via contorta che sta per sfociare finalmente nel lungo rettilineo d'arrivo. Il primo traguardo è questo: il giovane senatore dell'Illinois ha intascato la metà più uno dei delegati eletti alla Convenzione democratica del prossimo agosto. La campana allora è suonata alla chiusura degli scrutini nello Stato dell'Oregon, portando il suo totale a 1.953, qualcuno in più del minimo aritmeticamente necessario, con tre primarie di anticipo sulla conclusione dei lavori. Tutto è andato secondo il previsto: la Clinton ha stravinto nel Kentucky (65% contro il 30 di Obama e una manciata di voti al senatore Edwards, forse una indicazione di desiderata per la nomina a candidato alla vicepresidenza), Obama ha vinto nettamente nell'Oregon con il 52% dei suffragi contro il 42 di Hillary (un po' meno di lei nell'altro Stato in palio, un po' di più di quanto preannunciato dai sondaggi). Il totale della Clinton, sempre fra i delegati eletti, è 1.770, 183 in meno, non abbastanza per un sorpasso neppure nell'ipotesi del tutto teorica che lei faccia il pieno nelle tre consultazioni rimanenti: Portorico, Montana, North Dakota. Si prevede invece che North Dakota e Montana andranno a Obama e alla Clinton Portorico. Tre Stati non molto popolosi, difficilmente dunque sufficienti perché Obama ne tragga quegli 82 delegati che gli mancano ancora per raggiungere il numero davvero magico: 2.025 su 4.050 membri alla Convenzione.
Ci sono però ancora più di duecento superdelegati che devono fare la propria scelta e non ci sono molti dubbi sulla direzione che prenderanno. Montana e South Dakota sono «zona Obama» e i superdelegati, soprattutto, non hanno alcun motivo di ergersi contro la maggioranza acquisita da coloro che sono stati eletti, soprattutto a gara praticamente conclusa. Stando a calcoli ufficiosi, a Obama basterà, mantenendo lo stesso ritmo nei proosimi appuntamenti elettorali, avere in tasca 25 nuovi superdelegati per ricevere l’investitura del partito. Eppure Hillary non si è ancora arresa e lo ha ripetuto parlando ai suoi sostenitori nel Kentucky: non si arrenderà. Parla come se avesse ancora un asso nella manica e ne ha, teoricamente, due, che non sono però segreti. È la vecchia diatriba del Michigan e della Florida, i due Stati che hanno fissato le loro primarie in date proibite dal regolamento interno del Partito democratico e di conseguenza sono stati «squalificati». Anche perché solo Hillary vi aveva partecipato, nella convinzione di fare facilmente il pieno. Il suo ricorso sarà esaminato il 31 maggio da una commissione di partito. Nell'attesa lei li conta e propone un più alto totale che Obama potrebbe non raggiungere.


Ma si tratta delle ultime schermaglie destinate a «salvare la faccia» della combattiva senatrice di New York, tenere aperto il rubinetto dei contributi finanziari (e consentirle così di «restituirsi» gran parte degli undici milioni di dollari che ha sborsato di tasca propria come «prestito» alla propria campagna elettorale) e soprattutto di negoziare un accordo politico che dia a lei, al marito Bill e ai loro amici residui una voce in capitolo nella formulazione del programma, un influsso nella scelta del candidato alla vicepresidenza e un ruolo nella spartizione dei posti in una presidenza Obama. Lui continua a comportarsi come se questo problema non esistesse: fa campagna contro i repubblicani, cerca di «incollare» il più possibile John McCain all'impopolare Bush.

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