Olmert alla ricerca del prestigio perduto

Israele, novello Gulliver, ha rotto con l’operazione nel Libano i lacci con cui i terroristi (e gli orrori dei suoi governi) lo tenevano da anni immobilizzato con due effetti: ha stupito con la violenza della sua reazione l’avversario; ha scoperto che il nemico era più forte e agguerrito di quanto avesse immaginato. La sua dirigenza - un po’ come nella guerra del Kippur - si è fatta sorprendere nonostante tutte le informazioni sulle intenzioni degli hezbollah in suo possesso.
Gravi anche sono le responsabilità dello Stato maggiore il cui capo, il generale d’aviazione Halutz, privo di esperienza di guerra terrestre, dovrebbe, secondo uno dei più influenti commentatori politici di Haaretz (14 luglio) «ringraziare il fatto che alla testa del governo non c’è un Churchill». Il generale Halutz non sarà licenziato, ma a condurre la guerra sembra ci sia già il suo vice, il generale Kaplinsky che sa che le guerre non si vincono con l’aviazione ma con soldati che «guardano il nemico negli occhi» e non bombardando bersagli a distanza dove è difficile distinguere fra civili e militari. Un’azione di commando a Sud di Beirut, volantini che chiedono alla popolazione del Libano meridionale di evacuare le zone di possibili combattimenti, sono indicativi di come si potrebbe sviluppare il conflitto nei prossimi giorni. Un conflitto che secondo il premier israeliano Olmert non sarà breve. Le famose settantadue ore su cui gli arabi hanno sempre contato per organizzare l’intervento internazionale che imponga un cessate il fuoco, questa volta saranno più numerose e sanguinose. Perché oltre alla distruzione delle basi degli hezbollah, Olmert mira a ripristinare la forza di dissuasione e il prestigio che Israele sembrava aver perduto.
L’attacco dell’altro giorno contro la corvetta portamissili e il suo elicottero è stato infatti un duro colpo al prestigio militare che gli hezbollah hanno sfruttato sul fronte della guerra psicologica. Il fatto che l’arma da loro usata sia stata identificata come un missile di costruzione cinese di tipo C-701, in dotazione alla Marina iraniana; che per la prima volta Israele abbia chiuso il porto di Haifa (centro di comunicazioni e di industrie vitali per lo Stato) la dice lunga sulla gravità del conflitto e dei suoi possibili sviluppi.
«Questa guerra - scrive Haaretz - è la guerra che Israele deve vincere». In gioco non c’è solo il terrorismo islamico che non può essere eliminato solo con mezzi militari; c’è l’esistenza stessa dello Stato ebraico. Questo lo hanno capito gli israeliani e l’opposizione di destra, ma anche i governi arabi. Come è emerso dalla riunione della Lega Araba al Cairo, i «Paesi fratelli» non intendono prendere iniziative a favore del Libano e dei palestinesi sia per ostilità religiosa e politica nei confronti degli hezbollah sciiti, sia per tema che un Israele piegato dal terrorismo islamico accomuni, come Sansone, l’intero Medio Oriente alla sua guerra.
Questa è anche l’impressione che in Israele si ha del G8 di San Pietroburgo.

Per ragioni e interessi molto differenti i Grandi non si oppongono, in questo momento, a che l’esercito israeliano faccia «lo sporco lavoro» contro i terroristi legati all’Iran. La domanda non è dunque se la guerra nel Libano continuerà. È se, quando, e a che condizioni il governo Olmert la concluderà.

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