Washington - Per John McCain, di questi giorni, piove sul bagnato. È arrivata anche la più singolare fra le dichiarazioni di appoggio alla sua candidatura: quella di Tin Duyet, un pensionato di Hanoi: «Se fossi americano voterei per lui». Al vasto mondo questo nome non dice un gran che, ma McCain lo conosce benissimo: ne ha un ricordo vivido; era il suo carceriere, il manager dello «Hanoi Hilton», il direttore della famigerata prigione dove erano rinchiusi, durante la guerra nel Sud Est asiatico, i prigionieri americani, in genere aviatori. Era lui che dirigeva gli interrogatori, che ha tenuto McCain per più di due anni in una cella di isolamento, tagliato fuori dal mondo, «fino a che non si decidesse a collaborare». E che lo ha fatto torturare.
I ricordi combaciano, anche se il carceriere nega che si trattasse «proprio di tortura»: «Potevamo picchiare i prigionieri anche duramente ma solo con la mano. I pugni erano proibiti». Saranno stati schiaffi quelli che nel 1968 fecero saltare a McCain due denti, gli incrinarono tutta una fila di costole e tornarono a rompergli un braccio. Lo stesso McCain dice, del resto, di essere stato trattato «meglio degli altri prigionieri», per lo stesso motivo per cui fu in cella di isolamento: perché era il figlio dell'ammiraglio. Crudeltà e «riguardi». Non lo dovevano «rovinare». Era un «investimento» importante.
Non immaginavano quanto. Per sessantatré mesi i nordvietnamiti hanno avuto fra le mani un futuro presidente degli Stati Uniti, l'uomo che determinerà tra l'altro i rapporti tra Washington e Hanoi. E adesso fanno il tifo per lui. Non solo Tin Duyen; tutti. Sono quasi soli, all'estero. I sondaggi rivelano che i cittadini di quasi tutti gli altri Paesi del pianeta, se potessero votare nelle elezioni americane, sceglierebbero Barack Obama. Il Vietnam no. Non soltanto il vecchio carceriere: tutti. I funzionari di regime e i profughi, il Nord e il Sud, i giovani e i vecchi, i politici e i militari, quelli che ancora vivono nel ricordo della guerra e quelli che se ne sarebbero dimenticati: se non fosse per John McCain, l'unico o quasi tra gli uomini politici di Washington ad avere partecipato a quel conflitto così lontano nello spazio e ormai anche nel tempo. McCain fece la sua parte: 23 missioni di bombardamento. E non sulla giungla dove si nascondevano i Vietcong ma su Hanoi, capitale del Nord. Alla ventitreesima incursione la contraerea lo tirò giù dal cielo e lui finì nell'inferno oppure nel limbo, per cinque anni che lui deve avere vissuto come un'eternità.
Adesso che è sulla soglia della Casa Bianca, rispettato dagli americani, guardato con sospetto da molti in Occidente, può contare su un esercito di tifosi nel Paese che ha bombardato e dove è stato torturato. Parlano di lui con rispetto, come Duyen, o addirittura con affetto, come Nguyen Thi Thanh, l'infermiera che salvò la vita di McCain quando atterrò col paracadute dal suo jet disintegrato in una palude che si chiama «lago di Truc Bach» e rischiò prima di affogare e subito dopo di essere linciato. I vietnamiti non hanno dubbi: considerano McCain «un amico», e a quanto pare sono ricambiati. Da quando lo hanno liberato, McCain è stato l'americano che più si è battuto per normalizzare le relazioni con il Paese ex nemico. Ha proposto e fatto passare leggi che hanno consentito agli scambi commerciali di moltiplicarsi per otto negli ultimi sei anni e sono fermamente convinti che un presidente McCain «continuerà ad aiutarci. È un uomo leale, della cui parola ci fidiamo tutti».
Continua ad essere un buon
investimento. John McCain è tornato a Hanoi diverse volte, da privato cittadino e da senatore. Se ci metterà piede anche da presidente può darsi che ridipingeranno la sua prigione e la sua cella e ne faranno un'attrazione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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