Il padre di uno dei marinai nelle mani dei pirati: "Silvio salvi mio figlio Eugenio, sta morendo"

Eugenio Bon, marinaio triestino, è prigioniero in Somalia da febbraio. Le sua salute è allo stremo. Pagare il riscatto incoraggerebbe la piaga dei sequestri in mare. Giovedì scorso. dopo 5 mesi di silenzio, il rapito ha telefonato a casa

Il padre di uno dei marinai nelle mani dei pirati: 
"Silvio salvi mio figlio Eugenio, sta morendo"

Trieste - «Signor Presidente del Consiglio, mi rivolgo a lei dopo avere percorso tutte le vie istituzionali possibili (...) e senza più speranza. Mi appello a lei in quanto padre, che ama i suoi figli, lasciandole immaginare come posso sentirmi dopo aver parlato al telefono con il mio Eugenio, che mi supplicava in lacrime e con un fil di voce di salvarlo. E come si possono sentire gli altri familiari dei marittimi in ostaggio, a bordo della "Savina Caylin", sapendo che i nostri cari stanno morendo». Comincia così l'accorato appello di Adriano Bon indirizzato al capo del governo, Silvio Berlusconi. Suo figlio Eugenio, triestino di 30 anni, è nelle mani dei pirati in Somalia dall'8 febbraio, assieme ad altri quattro marittimi italiani e 17 indiani dell'equipaggio. Giovedì scorso Bon ha ricevuto una drammatica telefonata dal figlio, che non sentiva dal 12 aprile. E poi ha deciso di lanciare l'appello al presidente del Consiglio: «Signor Berlusconi si metta nei panni di un padre che si sente dire con un filo di voce irriconoscibile "papà sto morendo, non sento più le gambe, non riesco a camminare perché troppo a lungo ci tengono legati, sono impazienti e ci torturano, sono sfinito, ho capito che il nostro armatore non vuole pagare per liberarci. Ma gli italiani sanno che noi siamo qui abbandonati da 7 mesi e mezzo (...)? Ogni giorno è peggio non so quanto ancora riesco a resistere. Papà ti prego, fa almeno tu qualcosa per salvarmi».
In questo momento sono 14 gli italiani in ostaggio all'estero, tutti in Africa. Per i cinque della petroliera Savina Caylin si rischia che qualcuno non torni più a casa, o resti invalido. I pirati li maltrattano e poi fanno telefonare per ottenere il riscatto.
I familiari hanno incontrato il 7 settembre il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, che ha informato Berlusconi.
Per tirarli fuori bisogna pagare o sparare, ma il cavaliere del lavoro Luigi D'Amato, armatore della nave, non ha ancora tirato fuori i soldi chiesti dai pirati.
Ieri Palazzo Chigi elencava in una nota i passi del ministero degli Esteri e della Difesa per ottenere una soluzione ribadendo che «il governo italiano non può d'altra parte sostenere alcuna azione che si traduca in favoreggiamento del fenomeno della pirateria». In passato, però, soprattutto per liberare giornalisti oppure operatori umanitari, si è fatto molto di più utilizzando anche fondi riservati dei servizi segreti. In realtà nella legge sul terrorismo e la pirateria non sarebbe esplicitamente vietato il pagamento di riscatti. Neppure gli Stati Uniti e l'Inghilterra, notoriamente Paesi "duri", proibiscono di pagare. Non a caso gli accordi per liberare le navi avvengono attraverso studi legali di Londra.
Per gli ostaggi, senza sfociare nel «favoreggiamento della pirateria», c'è spazio di manovra, se non ci si fossilizza su atteggiamenti burocratici. Per questo Bon si rivolge direttamente a Berlusconi: «Come capo del governo lei è l'ultima speranza per salvare gli ostaggi, che si stanno spegnendo nelle mani dei pirati. Parli con l'armatore, che nessuno sembra riuscire a contattare, e trovi il modo di salvare la vita ai nostri figli dando disposizioni a tutti gli organi dello Stato d'intervenire per una soluzione».
Le cinque famiglie degli ostaggi della Savina, sottolinea il padre del primo ufficiale di coperta nell'appello a Berlusconi, si sono «rivolti (...) al Papa, al presidente Napolitano, ai ministeri preposti, ai politici, fino ai più alti livelli, ai suoi amici e ai suoi nemici, credendo che tutti dovessero contribuire per salvare delle vite».
A Trieste, Procida e Pian di Sorrento città originarie degli ostaggi, migliaia di persone hanno manifestato, in maniera composta e silenziosa, con la parola d'ordine «liberi subito». «Sappiamo che il governo chiede il silenzio stampa - scrive Bon - ma dopo sette mesi di pazienza, senza risultati concreti, (...) la fiducia nelle istituzioni ha raggiunto il livello più basso. (..) Non possiamo continuare a tacere, tanto meno in uno Stato democratico».
Giovedì scorso anche altri ostaggi dei pirati hanno chiamato a casa facendo sprofondare nell'angoscia le famiglie.

Il figlio di Nicola Verrecchia, direttore di macchina, ha raccontato come il padre parlasse lentamente, singhiozzando. Gli ha detto che aveva il corpo coperto di lividi, che gli ostaggi sono stati picchiati, legati mani e piedi sul ponte sotto il sole, con nulla da mangiare e acqua solo salmastra da bere.
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