Paradosso Opera nomadi: "Rom senza lavoro? Legalizziamo le loro attività"

L'appello del presidente Converso al governo: «Togliere i soldi destinati alle guardie private e investirli nei nostri mestieri tradizionali. Giostrai, ambulanti, riciclatori...». Nessuna condanna, invece, al racket che sfrutta i minori. Con l'appoggio di Pd e Cgil

Il paradosso tipicamente italiano di ribaltare la realtà secondo le necessità del momento s'arricchisce di una nuova puntata. Come sempre quando si parla di integrazione della comunità rom, il rischio di scivolare nelle generalizzazioni è sempre dietro l'angolo. Pericoloso almeno quanto i (troppi) luoghi comuni. Eppure, se c'è una certezza in materia, sono proprio quei dati del Viminale che indicano in questa etnia un tasso di illegalità maggiore rispetto a molte altre. Per ragioni diverse, certo, e in alcuni casi con la responsabilità delle istituzioni. Comunque: il problema è che i rom non hanno un lavoro regolare? Semplice, liquida la questione l'Opera Nomadi, vuol dire che lo Stato non fa abbastanza per loro. Ergo, la soluzione: legalizziamo i «mestieri tradizionali» dei rom e sinti. E naturalmente, con lo zampino dei sindacati.
Non si tratta di un'astrusa inversione dialettica ma di una proposta realmente avanzata dall'associazione in questione, oggi a Roma, durante la conferenza nazionale delle cooperative dei rom e sinti. Ecco testualmente il succo dell'appello, che tra l'altro confonde le diverse esigenze di sicurezza e socializzazione: «Il governo dovrebbe togliere i soldi destinati alle guardie private (!) - ha affermato il presidente dell'Opera nomadi, Massimo Converso - e investirli nel processo di legalizzazione dei nostri mestieri tradizionali». Fra questi, Converso annovera il mestiere di giostraio, musicista di strada, commercio e artigianato e raccolta differenziata. Laddove, purtroppo, molto spesso nelle città italiane stano per accattonaggio, furto di rame e altri metalli, ricettazione, riciclaggio e racket delle discariche abusive. Come documentato dalle Procure, da nord a sud. Tutte attività floride, controllate dalla criminalità organizzata (anche «nostrana», per intenderci) oppure svolte in spregio a ogni normativa fiscale e del diritto del lavoro. Basti pensare, per esempio, allo sfruttamento di minori e disabili per l'attività sistematica di elemosina, e sfortunatamente, non solo.
Invece di denunciare i casi di abusi e violenze esistenti, l'Opera Nomadi arriva a chiedere che le normative nazionali e regionali riconoscano il lavoro delle comunità nomadi «nelle sue varie forme» e assicurino a questi gruppi una «trattativa costante» sul piano locale. C'è anche il beneplacito della politica, ovvio. «I mestieri dei rom e sinti - afferma il deputato del Pd Fabio Porta - hanno delle specificità che vanno tutelate e regolamentate, coinvolgendo i sindacati. Se serviranno provvedimenti a vantaggio dell'integrazione, noi siamo disponibili a collaborare e ci auguriamo la stessa sensibilità da parte della maggioranza».
E veniamo ai sindacati. «Mettere il lavoro al centro delle richieste dell'Opera nomadi - sostiene per la Cgil Ornella Cilona - è un ottimo punto di partenza per l'integrazione». Frena però Giuseppe Casucci, responsabile immigrazione Uil: «È necessario sostenere i mestieri tradizionali dei nomadi, ma allo stesso tempo per la loro integrazione serve che non si rinchiudano in questi mestieri e basta».
Attesa per la risposta dei ministri competenti.

Quanto già fatto in materia da Roberto Maroni (Interno), Maurizio Sacconi (Welfare) e Mara Carfagna (Pari Opportunità), tutto lascia prevedere un impegno di tutt'altro tenore e in altra direzione che la «legalizzazione dall'alto» di ciò che, oggi, è quanto di più lontano dall'idea stessa di legalità.

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