Ha due facce, il medico di famiglia che visita Fede, bambino obeso cresciuto negli anni Ottanta in un villaggio alpino all'ombra del Dardo, una cima dal profilo apertamente minaccioso. La prima faccia minimizza, il bambino non deve preoccuparsi, è solo «robusto»; non servono cure dimagranti e questo anche se solo un piccolo cilindro metallico impedisce alla lancetta della bilancia di oltrepassare il quintale e mezzo. La seconda, che dà il titolo al romanzo di Giorgio Falco (Il paradosso della sopravvivenza, Einaudi, pagg. 256, euro 20), enuncia la teoria secondo la quale gli obesi sarebbero in grado di difendersi meglio da alcune gravi malattie, per esempio il diabete o le cardiopatie. L'allegoria è trasparente: anche il patologico ha i suoi punti di forza, i suoi titoli di vanto. Il male genera i propri anticorpi.
Dopo un'infanzia caratterizzata dall'esclusione sociale e un'adolescenza in cui si limita a suscitare il disprezzo dei coetanei, Fede interrompe il digiuno sessuale che colpisce gli obesi quando, ormai studente universitario, è sedotto da Giulia, la figlia dell'imprenditore più ricco del paese. In un romanzo da bancarella, l'obesità di Fede preluderebbe all'emancipazione del protagonista, impegnato a dimagrire. Falco trasforma invece Giulia in un'eroina che applica al membro di Fede una gabbietta d'acciaio con tanto di lucchetto, dispositivo forgiato da moderni nibelunghi in una Ruhr immaginaria. È l'innesco di un gioco sadomasochistico dominato da dialoghi di impressionante consequenzialità e più stringenti della gabbietta di cui sono, in fondo, la metafora.
Il resto del romanzo - nel quale spiccano le pagine dedicate alla catastrofe che travolge la funivia del paese e le vicende legate al trasferimento del protagonista a Milano, dove è subito risucchiato nei mestieri legati al mondo di internet - non deroga dal diktat implicito dell'autore, un pessimismo non solo cosmico, ma articolato: mostruoso il passato geologico del pianeta, una sequenza di catastrofi; agghiacciante la condizione umana, fatta di nascite e morti che si susseguono senza senso, situazione rivelata già dal primo vagito di Fede, «un urlo acuto, privo di passato e segnali premonitori, presente e impersonale, la cosa più prossima al silenzio»; intollerabile, infine, la condizione attuale della gente, sorta sulle rovine di un mondo tradizionale che almeno metteva a disposizione alcuni
«quietivi», per dirla con Schopenhauer, tranquillanti culturali con cui era possibile ingannarsi in modo relativamente umano; ammesso e non concesso che per Giorgio Falco l'aggettivo abbia un significato non puramente derisorio.
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