PASOLINI Un critico criticabile

Nell’Italia dei primi anni Settanta, povera di dibattiti culturali, lo scrittore si mostra poco attento ai problemi della lingua, fa il verso agli strutturalisti ma non capisce la novità di Fenoglio

Garzanti rimette in libreria Descrizioni di descrizioni, di Pier Paolo Pasolini (a cura di G. Chiarcossi, pagg. 622, euro 22), che raccoglie tutte le recensioni uscite sulla rubrica che lo scrittore tenne sul settimanale Tempo dal novembre del ’72 al gennaio del ’75. Ma non si deve parlare di semplice riedizione. Non almeno in questo caso. L’edizione precedente è datata 1996, letteralmente un’altra epoca. Passata la retorica del trentennale dalla morte, c’è infatti da domandarsi cosa rimanga di Pasolini in questo nuovo millennio iniziatosi nel modo che sappiamo e continuato - finora - anche peggio.
E forse non c’è niente di meglio, per tentare di rispondere, di un libro come questo, cresciuto (senza alcuna intenzione di farsi libro) in un campo, che possiamo dire servile, come la critica letteraria. Un campo nel quale la voce dell’autore non regna sovrana - come nei romanzi, nei film o anche negli Scritti corsari - ma si rende corresponsabile (specialmente se si tratta di una mente spugnosa come quella di Pasolini) del clima culturale che attraversa, ritrovandosi appiccicati addosso i vezzi, le mode, la ristrettezza di orizzonte e le molteplici inessenzialità dell’epoca attraversata.
In questo senso Descrizioni di descrizioni restituisce a Pier Paolo Pasolini qualcosa che gli spettava da trent’anni e che per trent’anni nessuno gli ha voluto dare: il passato. La lettura di Descrizioni di descrizioni grazie alla materia stessa di cui è fatto (l’effimera critica militante) subordina ogni discorso sull’attualità di Pasolini alla constatazione della sua inattualità, o meglio: alla constatazione del suo diritto all’inattualità.
Colpisce infatti, leggendo il libro, l’estrema povertà del dibattito culturale di quegli anni, e la facilità - a dispetto del buon numero di uomini di lettere, scrittori, critici editori, che facevano il loro dovere in modo egregio - con cui una chiacchiera politica ancora pesantemente post-bellica imponeva alla considerazione generale temi e problemi che lasciavano l’Italia alcuni lustri indietro rispetto a ciò di cui si parlava nel resto del mondo.
Un esempio: la totale incapacità di Pasolini di importare un discorso minimamente fondato sul problema della lingua. Non che non ne parli, anzi. Cita spesso Contini, scrive di Gadda e in un paio di occasioni fa il verso agli strutturalisti, dei quali dimostra di non capire nulla. In questi casi si crea un corto circuito tra il metodo marxista (che Pasolini non ha mai personalizzato) e una certa tendenza professorale, pedantesca - che non gli era aliena. Da un lato, la lingua rimane per lui, dentro l’opera di un autore, una sovrastruttura, un elemento derivato, una funzione. Dall’altro lato, questa lingua intesa come puro strumento, forma con cui rivestire il contenuto, non si presenta nemmeno nel suo aspetto storico bensì come pura entità sintattico-lessicale: si veda, ad esempio, la bruttissima recensione a Fenoglio, dove gli sfuggono completamente soluzioni formali di altissimo valore narrativo - soluzioni che Pasolini non ha mai saputo adottare nei propri romanzi.
Non vorrei però che, da queste parole, si deducesse che il sottoscritto intenda stroncare Pasolini! Sto solo andando in cerca - io che in quegli anni mi formavo su Barthes e Foucault, e non su Pasolini - di una grandezza nascosta, diversa da quella di cui si fanno forti molti di quelli che, eredi dei suoi nemici, adesso siedono alla sua ombra.
Voglio dire che questi sono gli stessi anni delle grandi stragi (Brescia, Italicus) e dei primi passi delle Br, che proprio nel ’74 conquistano le prime pagine dei quotidiani con il rapimento del giudice Mario Sossi. Ma sangue e morte si stringono intorno a progetti politici riguardanti un’Italia lontana da noi, cattolica e comunista, doncamillesca e pepponiana. Pasolini capisce benissimo che, se la cultura letteraria adotterà gli stessi schemi mentali che sembrano dominare le frange politiche più «impegnate» e «progressiste», sarà il trionfo della morte, ossia della letteratura ridotta a funzione di qualcos’altro.
E qui insorge quello che a me è sempre parso l’elemento di gran lunga più rilevante nella cultura di Pasolini, che è il suo decadentismo. La sua difesa «reazionaria» dell’autonomia dell’arte è commovente. Attacca con foga Dacia Maraini che confonde letteratura e impegno ideologico. S’impegna in una imbarazzante (ma davvero illuminante) autodifesa contro gli strali di Adriano Sofri al suo teatro. Non perde l’occasione di elogiare Carlo Cassola, bersaglio principe del Gruppo 63.
Qui si mostra il grande intellettuale: non quello che discute dottamente di Dante e Leopardi ma quello che su temi più «bassi» (Maraini, Cassola, lo stesso teatro di Pasolini) intravede i segni di una questione decisiva. E non importa se poi questa questione emerge in altri testi, mentre qui ribolle solamente. C’è molta vita già in questo ribollire.
Pasolini adotta diversi metodi di analisi, ma lo fa in modo sempre ostentatamente dilettantesco, talora velleitario, senza mai coincidere con essi: analisi marxista, linguistica, psicanalisi (il suo tentativo di psicanalizzare Delitto e castigo testimonia del suo carattere di eterno adolescente ombroso). La sua vera scuola, di cui egli rappresenta appunto l’ala decadente, è e rimane quella di Roberto Longhi, che anno dopo anno - e qui giovano alla comprensione i dieci anni trascorsi dalla prima edizione di Descrizioni di descrizioni - si dimostra il vero asse portante della cultura italiana del ’900.
Questo libro ci presenta, insomma, l’esempio costruttivo di una militanza assoluta. Pasolini seppe fare un passo oltre la propria ideologia, facendo argine contro tutti quelli, ed erano davvero tanti, che concepivano la cultura (letteratura, cinema, arte) come potere. Dal Gruppo 63 in poi. Questa è gente che piano piano ha conquistato il potere letterario in Italia. E adesso qualcuno di loro fa il pasoliniano, cercando di far convivere Pasolini con il (proprio) potere, senza ricordare che dal potere Pasolini ebbe solo morte.
Oggi in tanti parlano in nome di Pasolini, gli dedicano convegni e rassegne teatrali (come Martone, diessino politically correct), lo citano gli assessori nei loro discorsi d’occasione. Chissà se i nostri nipoti, quando leggeranno le cronache culturali di questi nostri anni, le troveranno molto più ricche degli anni di Pasolini: se scopriranno un’Italia non più provinciale, con un dibattito culturale vario e libero, nel quale tutti coloro che professavano una qualunque idea venivano posti su un piano di reale parità. Una cultura senza nepotismi, senza angeli custodi, senza figli privilegiati. Chissà.
Di certo non troveranno Pier Paolo Pasolini. Forse, studiando bene (sempre che esista chi li farà studiare bene), troveranno in qualche angolo un suo simile. Ma solo allora si vedranno le analogie.

Oggi, per un vero figlio di Pasolini mille tromboni (magari persuasi di vivere in una perfetta simbiosi tra arte e vita) sono pronti a sollevare il sopracciglio, arricciare il naso e, ridacchiando, dire: «Chi, pasoliniano quello?».

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