Il Pdl al bivio scelga Bossi: Casini è la Prima Repubblica

di Vittorio Macioce

Roma Il Pdl e la questione del rimorchiatore. Strana storia: i finiani dicono che non si può andare a rimorchio del Senatùr e si arroccano per difendere il «laboratorio Polverini», regalando un posto al sole ai tardodemocristiani. È l’ultimo confine che divide il Nord dal Sud. E questa volta passa nel centrodestra. Non è solo una questione di alleanze e di poltrone. C’è di più. Questa storia ha a che fare con l’identità del Pdl. Bossi o Casini? Qui non parla solo la politica. È qualcosa che va giù, giù, fino alle viscere, a come guardi e osservi il mondo. È storia, è vestiti, è cravatte, è parole, linguaggio, clima, orizzonti e confini. Umberto e Pier Ferdinando non si sono mai capiti, neppure quando stavano insieme al governo, troppo distanti. Il Carroccio era l’avventura di quattro gatti randagi e senza casta, un po’ sognatori, con un futuro incerto e ha messo piede in Parlamento infilandosi nelle crepe della prima Repubblica. Bossi e gli altri sono venuti giù dal basso, seguendo una di quelle fratture della storia che rendono possibile anche l’inverosimile. Casini è il frammento di un continente bianco che, quasi all’improvviso, è andato in mille pezzi. È una scheggia di passato che ancora galleggia sui detriti della politica italiana, un testimone del tempo perduto.
La Lega si è conquistata spazio sgomitando, senza grazia, qualche volta in modo gretto, sbraitando, portando sulle spalle un progetto forte, che molti possono anche considerare una sciagura, ma che segna sul terreno una linea senza arabeschi. L’Udc sotto lo scudocrociato e la fede cattolica nasconde un pensiero debole. È la politica per la politica, il potere per il potere, le poltrone per le poltrone. È una partito che ha smesso di sognare. Capita a quelli che sono sopravvissuti a una grande stagione, il loro futuro è dietro le spalle. La cosa pubblica, per loro, è una partita a risiko. E le loro giacche sanno di sagrestia di partito, di sottogoverno, di accordi all’ombra degli assessorati, di tessere e portaborse.
I leghisti parlano a quella gente del Nord che non ha più voglia di lavorare come mezzadri per lo Stato. Le tasse di questa repubblica degli sprechi sono vissute come un balzello medievale, come il furto di una banda di predoni. È il Nord delle partite Iva, della Bassa e del Varesotto, del Veneto e dell’Emilia, di quella classe di artigiani, commercianti e imprenditori che non hanno mai avuto nella prima Repubblica una vera rappresentanza politica. È il Nord malmostoso che Bossi ha intercettato, con i suoi pregi e difetti, che mischia in modo paradossale libertarismo e xenofobia. È il Nord che la Lega ha sedotto e a cui ha dato un’identità, qualche volta soffiando sui difetti, altre cercando di arginarli. Bossi non ha inventato la questione settentrionale, ma gli ha fatto da specchio.
I post democristiani parlano a un Sud che rincorre un welfare perduto, quello del posto alle poste, delle pensioni d’invalidità, di un passaggio segreto per qualche ministero, gabbando Brunetta e le sue riforme. È il Sud che non si è rassegnato alla fuga dal Novecento, che considera un diritto naturale il posto fisso, che quando deve pensare al futuro del figlio si rivolge al senatore o all’onorevole locale e pensa che il segreto della vita sia conoscere la persona giusta.

È il Sud che si è aggrappato al Palazzo per sopravvivere.
Il dilemma è tutto qui. Il Nord di Bossi, da solo, è indigesto. Ma il Sud del «laboratorio Polverini», con Casini al centro, ha il sapore marcio della prima Repubblica.

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