Da Pechino a New York ecco gli ambasciatori del gusto

Da lunedì inizia la prima settimana della Cucina italiana nel mondo: oltre 1300 eventi in 105 paesi a tutte le latitudini

Maurizio Bertera

Il testimonial non poteva che essere Pellegrino Artusi, il padre della nostra cucina. Lunedì inizia la prima Settimana della Cucina Italiana nel mondo, manifestazione promossa dai ministeri delle Politiche Agricole e degli Affari Esteri: sino al 27, in 105 Paesi, ci saranno oltre 1.300 eventi per promuovere i nostri prodotti e la tradizione culinaria italiana. Era ora che qualcuno ci pensasse e un bel mattone all'idea è stato portato dall'Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto, anch'essa giovanissima come fondazione ma che ha preso spunto dal lavoro fatto prima e durante l'Expo: ne fanno parte 90 persone, con tutti i migliori chef del momento come forza trainante e appunto «ambasciatori» nel mondo della nostra «way of food». Il presidente è la romana Cristina Bowerman con Carlin Petrini a tenere il ruolo onorario che spiega così l'iniziativa. «La nostra missione parte dalla consapevolezza che raccontare e valorizzare il patrimonio dell'enogastronomia italiana significhi contribuire, in sinergia con le istituzioni, anche allo sviluppo del Paese». Pizzico di (scontata) retorica a parte, con decenni di ritardo, si è capito che la nostra immagine all'estero è positiva ma svolta male. Non si può impedire a migliaia e migliaia di locali nel mondo spesso non gestiti da nostri compatrioti nè da loro discendenti di sventolare il tricolore, facendo un terribile lavoro ai fornelli. Però, oltre a combattere seriamente l'italian sounding (che pare faccia danni «potenziali» ai nostri produttori per 60 miliardi di euro), bisogna far capire la grande differenza tra la «cucina» e il tentativo di cucina. Quindi i nostri campioni vagheranno da Pechino a New York come da Melbourne a Città del Capo per portare un messaggio di pace e buongusto, servendosi spesso delle ambasciate della Farnesina. Va detto che non pochi di questi lo fanno già con ristoranti di loro proprietà o con soci locali: l'ultimo in ordine di tempo è stato Cracco con il suo Ovo moscovita ma la prima ondata risale agli anni '90 quando Marchesi e Pinchiorri si lanciarono in terra giapponese, con alterni risultati. Oggi è rimasta l'Enoteca fiorentina con un locale a Nagoya, ma il cuoco italiano più famoso nel Sol Levante è Luca Fantin che ha un suo ristorante all'interno di Bulgari Tokyo. In attesa si sviluppi Singapore, è Hong Kong a vantare un'enclave italiana di livello: qui da anni opera il bergamasco Umberto Bombana che nel 2012 ha preso le tre stelle Michelin con Otto e Mezzo (Fellini funziona anche da queste parti...) e cura altri tre locali con lo stesso nome a Shanghai, Pechino e Macao. Sempre a Hong Kong ci sono l'elegante Sepa di Enrico Bartolini simile a una cicheteria veneziana, difatti l'insegna significa «seppia» in veneto -, la Locanda Perbellini dello chef veronese e il Miramonti l'Altro di Philippe Leveillé. Oldani si è spinto sino alle Filippine, con un D'O da esportazione in un hotel Shangri-La. Poi gli Emirati: a Dubai ci sono gli Iaccarino (presenti anche a Marrakech e Macao) e Alfredo Russo con il Vivaldi, l'italiano di adozione Heinz Beck con il Social e da poco i Pinchiorri con Artesan. Altri ne verranno, sicuramente.

Infine, la cara vecchia Europa con ampia rappresentanza a Londra (dove il «navigato» Giorgio Locatelli ha una stella dal 2002), a Parigi (con lo Stern Café degli Alajmo in prima fila ma anche i bistrot di Simone Tondo e Giovanni Passerini) mentre sua grandezza Massimo Bottura ha un avamposto nell'Eataly di Istanbul. Chiamare questo locale «Italia» entra di diritto nella lunga lista delle «genialate» di Oscar Farinetti.

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