Pechino non cede Coprifuoco e arresti nella città ribelle

«Difendi il paese, dàgli all’ui- guro, ammazza il musulmano». Spranghe e scuri s’agitano nel cielo, coltellacci da macellai passano di mano in mano, vanghe e bastoni chiodati sfilano nelle strade. A Urumqi prima del coprifuoco della sera, tutto è pronto per un nuovo truculento massacro. La vendetta degli Han invade il capoluogo dello Xinjiang, ulula la sua voglia di sangue, scatena la grande rappresaglia. Dopo la notte dei cristalli musulmana costata 156 morti e oltre mille feriti il martedì di Urumqi ha il volto della rabbia cinese.
La notte di lunedì è servita ai servizi di sicurezza per cercare i capi della rivolta, rastrellare i quartieri musulmani del grande Bazaar, trascinare in galera più di mille sospetti. Ora il lavoro sporco tocca a quella fiumana inferocita di cinesi Han, una calca di 10mila esagitati capaci di sgusciare tra le colonne di forze antisommossa schierate nel centro di Urumqi, per ricompattarsi all’improvviso e riprendere la caccia all’uiguro.
«Sono entrati nei nostri quartieri, sono venuti a ucciderci ora è il nostro turno, non aspetteremo il governo andremo a prenderceli e li faremo a pezzi» - annuncia il 19enne Dong Sun agitando la sua spranga d’ordinanza. Polizia e forze di sicurezza reagiscono a fasi alterne. A momenti bloccano le folle infuriate con i lacrimogeni, a momenti le fanno passare.
Le autorità sembrano incerte sull’atteggiamento da assumere. Wang Lequan, capo del partito comunista dello Xinjiang annuncia il coprifuoco, ma cerca di stemperare la tensione «Qui nessuno vuole vedere gli Han o gli Uiguri minacciati e attaccati, per noi ogni morto - dichiara - è una sofferenza». Li Zhi capo del partito di Urumqi guida, invece, un gruppetto di scalmanati all’opera nel centro della città, sale sul tetto di un auto della polizia, incita il branco, evoca punizioni esemplari per Rebiya Kadeer, la 62enne donna d’affari musulmana presidentessa del Congresso mondiale dei Uiguri l’associazione di esuli accusata da Pechino d’organizzare la rivolta.
Mentre Li dirige la grande caccia in Xingfu Road nei quartieri orientali della città una banda di Han sfonda a colpi di sassi i parabrezza di un’auto con due uiguri a bordo, cerca inutilmente di bloccarla. Il capillare schieramento delle forze di sicurezza pur lasciando spazio alla rabbia Han evita il contatto tra gruppi rivali, impedisce una nuova strage. La vera unica esigenza delle autorità sembra far sfogare la voglia di vendetta dei cinesi per poi colpire con il pugno di ferro sperimentato in Tibet, i capi uiguri. A confermare l’avvio della pesante repressione ci pensa, una volta tornato al suo ufficio, lo stesso segretario Li Zhi annunciando l’arresto di 1.434 sospetti accusati d’assassinio e saccheggio.
Prima di lui l’avevano già annunciato moglie e figli degli arrestati. In assenza di Internet e telefoni bloccati dalle autorità si presentano davanti ai giornalisti ammessi in città e denunciano le retate.

«Mio marito sono venuti a prenderlo in casa, erano scatenati sono entrati nel quartiere con le armi spianate colpivano la gente, la facevano spogliare e inginocchiare per terra. Mio marito era chiuso in casa hanno buttato giù la porta, sono entrati con le armi spianate» - racconta una donna uigura in lacrime convinta di aver contato 300 arresti solo nella zona musulmana del Bazaar.

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