Perché gli autobus non passano mai

Il buco nero dei mezzi pubblici. In Europa battiamo tutti: spendiamo di più e abbiamo i servizi peggiori

Perché gli autobus non passano mai

Mai un bilancio in utile negli ultimi tredici anni, un debito che supera gli 1,5 miliardi di euro, una produttività inferiore del 25/30% alle altre aziende italiane del settore, che sono già mediamente peggiori delle loro colleghe europee. In compenso i 12mila dipendenti sono divisi in 11 sindacati diversi che si fanno notare per litigiosità e per 111mila ore di distacchi sindacali non giustificati. Se ci fosse un Premio Oscar per la peggiore azienda di trasporti pubblici d'Europa l'Atac di Roma, a cui si riferiscono i dati citati fin qui, avrebbe la quasi certezza di conquistarlo. Perché sul piatto della bilancia c'è anche una qualità del servizio che i cittadini della Capitale (e tutti gli indicatori di efficienza utilizzati dagli esperti) bocciano senza appello.

Un caso estremo, quello dell'azienda laziale, ma non troppo. Perchè nelle città italiane autobus e tram sono un disastro o giù di lì. Se si guarda ai confronti internazionali «il sistema italiano è in una posizione di sostanziale arretratezza sia dal punto di vista della struttura industriale che dalla qualità dei servizi offerti». A condannare con queste parole le aziende di trasporto locale della Penisola è una indagine conoscitiva dell'Autorità Antitrust pubblicata qualche settimana fa, che parla anche di «progressivo ed inesorabile scadimento dell'offerta e dell'efficienza dei sevizi di trasporto locale». Il quadro che ne emerge è sconfortante: gli autobus italiani ricevono lo sovvenzioni pubbliche più alte, ma garantiscono i servizi peggiori. Basta passare in rassegna qualche numero per rendersene conto.

IL PESO DELL'INEFFICIENZA

Ogni chilometro percorso costa in Italia 3,3 euro, più che negli altri Paesi europei (vedi anche le tabelle in pagina). Ma se i costi di esercizio sono i più alti, i ricavi legati alla vendita dei biglietti sono i più bassi. Coprono infatti il 38% delle spese contro per esempio il 64% in Gran Bretagna e addirittura l'83% in Germania. Non meraviglia dunque che sia il contribuente a dover metterci più soldi. Le sovvenzioni pubbliche ammontano da noi a 2,4 euro per chilometro contro lo 0,8 e 0,9 di Gran Bretagna e Germania. Nonostante i soldi pubblici (oggi i versamenti annui raggiungono nel complesso i 7,6 miliardi di euro) le aziende non sono nemmeno in grado di mantenere un parco di vetture circolanti alla pari con gli altri Paesi. L'età dell'autobus tipo supera i 12 anni contro i 7/8 della media europea. È stato calcolato che per adeguare l'età media a quella europea l'Italia dovrebbe spendere oltre 800 milioni di euro in più all'anno per 10 anni consecutivi. Proprio l'età avanzata degli autobus contribuisce tra l'altro a tenere alti i costi, visto che mantenere operativo un autobus vecchio di 15 anni comporta una spesa che è sei volte quella necessaria per una vettura nuova. Quanto al servizio offerto, un primo dato su cui vale la pena riflettere riguarda il numero di passeggeri in rapporto ai posti disponibili. Nonostante possa sembrare controintuitivo a chi frequenta le principali linee cittadine nelle ore di punta, gli autobus italiani circolano semivuoti: il cosiddetto coefficiente di carico è di poco superiore al 20%, contro valori perfino doppi degli altri Paesi. Il dato definitivo sul gradimento del trasporto pubblico è però quello degli spostamenti. Nella Penisola chi deve usare un mezzo per muoversi utilizza nell'81% dei casi l'auto e solo nel 14,6% autobus o tram. Un dato lontanissimo da quello del resto d'Europa dove i due terzi degli spostamenti cittadini avvengono senza l'uso dell'auto privata.

LE PECORE NERE

Naturalmente, come spesso accade nel nostro Paese, i dati medi vanno interpretati perché comprendono, come per il proverbiale pollo di Trilussa, realtà diversissime tra loro. In questo caso la differenza è quella tra un Nord con aziende più grosse e di solito più efficienti e un Sud fatto di piccole realtà con bassi livelli di produttività. Significativo, per cogliere il divario, il dato sui costi chilometrici. Se la già citata media nazionale è pari a 3,3 euro, il costo nel Lazio e in Campania raggiunge la cifra astronomica di 7,59 e 7,44 euro a chilometro, mentre in Liguria ci si assesta sui 5,5, in Sicilia sui 4,98 e in Calabria sul 4,19. Da sottolineare che proprio Lazio e Campania sono a tutti gli effetti le pecore nere del settore visto che contribuiscono da sole a circa il 70% del deficit totale del sistema.

Più o meno omogenei al livello nazionale sono invece i costi dei biglietti e degli abbonamenti, una delle chiavi per capire l'arretratezza italiana. Nelle principali città della Penisola il biglietto di corsa singola costa 1,5 euro. Poco, pochissimo, non solo in confronto alla super-cara Londra (3,2 euro), ma anche alle città tedesche, francesi, e perfino a quelle spagnole (vedi i confronti in pagina). Il divario aumenta ancora se si considerano i costi degli abbonamenti mensili. La spesa media del viaggiatore in una delle prime quattro città italiane è di 36,6 euro. L'esborso è il più basso in Europa ed è di gran lunga inferiore anche a quello degli spagnoli (52,7), per non parlare dell'inavvicinabile Londra, dove si superano i 170 euro.

TESSERE A BUON MERCATO

La differenza ha a che fare con i diversi livelli di ricchezza nei singoli Paesi? Sembra proprio di no. Anzi, al contrario, gli italiani spendono meno non solo in assoluto ma anche in rapporto al reddito. Secondo dati citati dall'Autorità Antitrust a Milano un abbonamento mensile è pari a poco meno dell'1% del reddito mensile, a Roma pari all'1,22% e a Torino arriva all'1,5%. A Parigi e Madrid un viaggiatore spende per un abbonamento l'1,82 e l'1,93% del reddito, mentre a Londra e Berlino si supera il 3%. «La verità è che in Italia siamo convinti che l'autobus sia un diritto, già pagato con le tasse», spiega il dirigente di un'azienda del settore. «E facciamo fatica ad accettare il fatto che se si vuole un servizio, qualcuno, il contribuente o il viaggiatore, deve pagarlo». Tenendo bassi i prezzi dei biglietti (e non combattendo l'evasione tariffaria, pari a circa il 20% dei ricavi) le aziende vedono diminuire i propri margini di autonomia commerciale e si trasformano in semplici percettori di sussidi pubblici. Questi ultimi, a loro volta, sono ancora distribuiti in larga misura secondo i costi storici, nonostante il governo da tempo stia preparando un decreto sui cosiddetti costi standard (quelli corretti in base a una gestione aziendale efficiente). In pratica si premia chi in passato ha sprecato soldi. Una via d'uscita, secondo l'Antitrust, c'è: quella di diminuire gli affidamenti diretti e aumentare le gare per assegnare il servizio alle società più efficienti. In Italia le prime risalgono a una decina di anni fa, ma restano l'eccezione e non la regola. «Di solito c'è un problema», spiega Lanfranco Senn, docente di Economia dei Trasporti alla Bocconi. «L'arbitro è anche giocatore.

L'ente pubblico che dovrebbe scegliere il vincitore controlla anche una società di trasporto che è poi quella che tradizionalmente ha gestito il servizio. È un bel conflitto d'interesse e non è la migliore base di partenza per una gara come si deve».

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