«Perché i film italiani non vanno all’estero? Troppo provinciali»

Spike Lee ha girato Miracolo a Sant’Anna e Matt Tyrnauer Valentino - The Last Emperor; Tom Cruise ha comprato i diritti di Dolci colline di sangue, il libro sul mostro di Firenze, Ridley Scott sta lavorando a Gucci Biopic e la Warner Bros farà un film su Leonardo da Vinci. Dal genio del Rinascimento all’imperatore del made in Italy - passando per le stragi naziste della Seconda guerra mondiale, i più oscuri omicidi seriali degli anni Settanta e la fine torbida e tragica di una dinastia della moda -, sul grande schermo l’Italia funziona. Ma solo se ce la porta Hollywood. Se la raccontano i nostri registi, invece no. Abbiamo chiesto un’opinione sul tema a Renzo Martinelli, uno dei pochissimi cineasti italiani che guarda al di là delle Alpi.
Perché secondo lei i nostri film all’estero non hanno mercato?
«Una notazione che può valere come premessa. A livello mondiale la concorrenza è spietata. I grandi compratori decidono se acquistare un film dopo aver visto 10/15 secondi di trailer. Se ci sono cavalli, battaglie, riprese dall’elicottero, bene. Altrimenti...».
Chiaro. Premesso questo?
«Il primo ostacolo è la lingua. Nei Paesi anglosassoni, dove non si doppia, i film coi sottotitoli non sono considerati appetibili».
Il secondo?
«È connesso al primo. I compratori internazionali il cast lo pretendono. E gli attori che richiamano il grande pubblico o sono anglosassoni o recitano in inglese».
Altri ostacoli?
«I temi, i soggetti».
Ma come? Col fascino che l’Italia esercita su tutti gli abitanti del pianeta sensibili alla cultura, all’arte o allo stile... La biografia di Michelangelo o quella di Enzo Ferrari non potrebbero funzionare?
«Certo. Trovare storie italiane non è difficile, lo è però trovare il modo giusto per raccontarle e i finanziamenti adeguati».
Ma quando si può guadagnare tanto si dovrebbe essere indotti a investire tanto.
«Evidentemente non c’è interesse, né ambizione. Insomma, manca il coraggio».
E secondo lei perché?
«È più comodo fare film giovanilistici o commedie a costi contenuti che cercare i soldi necessari per i cast internazionali, i costumi, le ricostruzioni e le lavorazioni in digitale».
A parte i suoi, l’ultimo film storico italiano che le è piaciuto?
«Non saprei».
Il mestiere delle armi?
«Bellissimo. Di Ermanno Olmi, un maestro. Ma il nostro cinema d’autore può funzionare in Francia».
E il nostro cinema «normale» neppure lì.
«Fino agli anni Settanta in Italia si producevano film di genere, i polizieschi, i western, gli horror... Da allora, anche per la distorsione introdotta dal finanziamento pubblico, si privilegia il cinema dei registi che raccontano la loro visione della vita».
Lei è un’eccezione.
«Nel mio piccolo ci provo. Da Vajont in poi ho sempre girato in inglese».
Evidentemente non ha problemi di budget.
«Cerco di sfruttare al meglio le risorse puntando non solo sulla sala ma anche sull’home video e sulle televisioni. A quelle generaliste propongo la versione in due puntate da 100 minuti. E molto sui mercati esteri».
Ecco, il suo Barbarossa come si comporta nel mondo?
«Benissimo. Ha incassato un milione di dollari ed entro quest’anno ne incasserà un altro. Per i film italiani viene considerato un ottimo risultato un incasso da 300/400mila dollari. Raitrade lo ha venduto anche dove abitualmente di italiano non comprano nemmeno una diapositiva».
Il prossimo film?
«Quello sull’alluvione di Firenze. Spero di avere nel cast Matt Dillon e di cominciare a girare in novembre».
Altri progetti?
«11 settembre 1683, l’assedio di Vienna. Ci sto lavorando da sei anni, sarà una grande coproduzione italiana, polacca e tedesca. Un film un po’ complicato dal punto di vista politico ma credo che andrà bene».


E poi?
«Sto scrivendo un film sulla tragedia di Ustica, grande intrigo internazionale».
Lei però non fa scuola in Italia...
«No».
Le dispiace?
«No. Sono un solitario, faccio le cose che mi interessano, mi piace la storia...».

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