Perché il sistema tedesco fa male alla democrazia

Ad avventurarsi per primo sulla via germanica, disonore al demerito, è stato Marco Follini. Come dire, nomen omen. Dopo aver battuto i piedi un’infinità di volte, dopo aver preteso incomprensibilmente la caduta del secondo governo Berlusconi e posto condizioni per la sua immediata resurrezione, la testa più lucida dell’Udc, non foss’altro che per la sua prematura calvizie, tirò fuori l’asso dalla manica come se a metterglielo fosse stato Domine Iddio in persona. Scimmiottando nientemeno che Giuseppe Garibaldi, disse: «Qui o si fa la proporzionale o si muore». Fu accontentato perché a morire c’è sempre tempo. Così la Casa delle libertà ha perso le elezioni che forse avrebbe potuto vincere se avesse calcato ancora la scena il Mattarellum. Tre quarti di sistema elettorale maggioritario a collegio uninominale a un turno, come in Inghilterra, e un quarto di proporzionale senza preferenza.
Pier Ferdinando Casini, vale a dire l’ex fratello siamese, col tempo si è adeguato. Calcando le orme del dottor Pangloss, pure lui ha convenuto che la via germanica sarebbe il migliore degli universi elettorali possibili. Buon ultimo si è accodato Clemente Mastella. Una volta pappa e ciccia con Casini, tanto è vero che avevano messo su un partito insieme, il leader dell’Udeur poi ha dirazzato prima per i begli occhi di Massimo D’Alema, quindi fulminato sulla via dell’Unione. Ma, per dirla con Lorenzo de’ Medici, del diman non v’è certezza.
Orbene, non occorre l’acume di uno Sherlock Holmes per sapere che un indizio è un indizio, due indizi sono due indizi, ma tre indizi fanno una prova. Non è un caso che tre uomini di centro militanti in campi opposti sognino a occhi aperti lo stesso sistema elettorale vigente in Germania, per solito denominato proporzionale personalizzata. È evidente che intendano tenersi le mani libere. Tre uomini in barca ai quali non dispiacerebbe un domani di starsene nella stessa barca e scegliere se buttarsi con l’una o l’altra coalizione non prima ma dopo l’apertura delle urne. Insomma, la strategia è chiara come la luce del sole. Si vuole fungere da ago della bilancia e praticare la politica dei due forni di andreottiana memoria. Con il risultato che i cittadini regredirebbero di nuovo allo stato di sudditi, privati ancora una volta di quello scettro conquistato con il sistema elettorale maggioritario.
A questo punto entra in scena Massimo D’Alema, convinto di aver trovato la chiave del rebus. La «trovata», ripresa in quel di Gemonio dal trio Berlusconi-Fini-Bossi, è presto detta: l’indicazione delle alleanze e del presidente del Consiglio deve avvenire prima delle elezioni e non già dopo. Ma se è vero che i matrimoni d’interesse sono più duraturi di quelli d’amore, allora non c’è niente di meglio di un bel premio di maggioranza come correttivo della proporzionale. Proprio quel premio di maggioranza che l’Unione potrebbe sacrificare per ingraziarsi i «centristi».
Senza premio, però gli alibi sarebbero sempre a portata di mano dei bricconi. Se nessuna delle due coalizioni avesse la maggioranza, sarebbe giocoforza darsi alla campagna acquisti. E poi il modello tedesco prevede quella sfiducia costruttiva che in salsa italiana si risolverebbe nella codificazione dei ribaltoni d’infausta memoria.

Perché se il governo nato al momento delle elezioni dovesse cadere, il Parlamento potrebbe comunque eleggere un nuovo presidente del Consiglio sorretto da una maggioranza diversa. È quanto accadde nell’ottobre 1988 con il passaggio di consegne a Palazzo Chigi tra Prodi e - sempre lui - D’Alema. Errare è umano, perseverare sarebbe diabolico.
paoloarmaroli@tin.it

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