Persino i fedelissimi finiani vogliono le dimissioni di Fini

RomaIl doppio lavoro di Fini ora sta stretto pure ai suoi, che lo vorrebbero non più capo part-time ma a tempo pieno. È un segno chiaro di quel che sta succedendo tra i finiani, del cambio di registro che la disfatta sul fronte monegasco ha imposto anche ai più radicali sostenitori del neoleader Fli. Difficile che l’uscita di Alessandro Campi, politologo che gode della massima stima di Fini e che dirige la Fondazione che ha incubato Fli, Farefuturo, sia estemporanea e puramente personale. «Ora Fini dovrebbe fondare un proprio partito investendo in questa operazione tutto se stesso, dovrebbe di conseguenza dimettersi da presidente della Camera per riacquistare libertà di tono e di movimento», ha detto Campi al Foglio.
Ora, che i finiani della prima ora chiedano al capo un passo indietro rispetto a quella carica, da cui Fini ha detto di volersi dimettere soltanto quando (e se) verrà dimostrato che la casa è di Tulliani (cosa, Fini sa benissimo, molto difficile se Tulliani non dà una mano), non è faccenda di poco conto. Vuol dire che il tema delle dimissioni, prima innominabile, è entrato nel vocabolario di guerra finiano, non è più tabù ma anzi è una prospettiva possibile, addirittura auspicabile. Ma perché? Cos’è successo? Una risposta è che, visto che Fini stesso comincia a valutare l’ipotesi di dimettersi, il leader vuol sentirselo chiedere dai suoi, non solo dai nemici, di modo che un’eventuale decisione in quel senso non sarebbe vissuta come una sconfitta ma come una scelta autonoma. C’è poi un’altra considerazione che entra in gioco, e cioè che i finiani non sono più convinti che la pura tattica parlamentare sia sufficiente. È vero che Fini da presidente della Camera gode di un prestigio che non avrebbe come segretario di partito (piccolo, tra l’altro), ma è anche vero che, così, Fini resta un leader dimezzato. Il suo ruolo gli impedisce di scendere nell’agone politico con la forza che servirebbe in questo momento, e d’altra parte la durezza dello scontro è tale che è difficile, se non impossibile, essere credibili come istituzione super partes, cosa che lo espone costantemente agli attacchi dei rivali. Una situazione non ideale per combattere, ed è quello che i pretoriani stanno realizzando in queste ore.
Anche perché la costituzione del partito Fli è ormai cosa certa. Italo Bocchino lo ha fatto capire chiaramente, descrivendola come una prospettiva «inevitabile». Ma un partito, che è ancora in fieri, ha bisogno di un capo vero, presente. Sennò rischia di crescere debole e zoppicante, come spesso appare Fli, che perde pezzi ogni giorno (in uscita dai gruppi si parla di un numero da 5 a 10 parlamentari) e stenta a consolidarsi sul territorio. Il vero problema è individuare la giusta «exit strategy» per il presidente, perché le dimissioni non dovranno essere archiviate come una resa. Sarebbe un pessimo inizio per il partito appena nato, che sfiderebbe il Cav con un capo che ha già perso una battaglia con lui. Per questo i finiani superano Fini in «finismo», come fa anche il direttore scientifico di Farefuturo quando rimprovera al leader di aver anche solo adombrato, nel videomessaggio di sabato scorso, lo scenario di dimissioni spinte «dalla risibile e forsennata campagna sulla casa di Montecarlo». Se Fini lascerà quella carica (che deve al Pdl), dovrà farlo perché «ispirato da ben altro, dalla sua storica battaglia per un centrodestra migliore», dice Campi. Una volta dimessosi, Fli sarà già un partito. È quello che i finiani auspicano anche per un timore inconfessato.

Lo scenario delle elezioni anticipate non può essere escluso, non è detto che se ci sarà la crisi si risolverà con un governo tecnico, insomma ci si potrebbe trovare presto a fare i conti non con i numeri in Parlamento, ma con gli elettori. In quel caso servirebbe urgentemente un partito e un leader libero di farlo. Una sfida così grande da meritare un sacrificio durissimo per Fini, la poltrona più alta di Montecitorio.

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