Il piano di Fini sfuma in piazza Duomo

La Russa fa sapere che Gianfranco è preoccupato. Passa un’ora e poi Fini parla. Prima c’è Di Pietro, che dice: «Berlusconi se l’è cercata». Poi lui, il presidente della Camera: «Le dichiarazioni di Di Pietro sono inaccettabili. È dovere di tutte le forze politiche fare fronte comune perché l’Italia non riviva gli anni della violenza. Oggi è un brutto giorno per il Paese, un simile gesto non può e non deve essere minimizzato». Qui il clima sta diventando di piombo. Il premier diventa un cittadino da prendere a pugni, a colpi in faccia. L’impatto, l’urlo, il volto che sanguina, l’odio che diventa fisico, concreto, di sangue e rabbia. L’aggressione a Berlusconi accelera i tempi e ha il sapore del non ritorno. Tutto, davvero, ora è in discussione. Tutto è possibile. Ogni solidarietà si è rotta. Il paradosso è che più della politica la svolta arriva con un gesto di violenza. Con il sangue.
Qualche tempo fa, nel retrobottega finiano, si parlava, ancora un po’ sottovoce, di rimescolare gli equilibri politici. Il discorso era più o meno questo: qui si ragiona ancora con Pdl e Pd, ma questi confini stanno per saltare. È quello che è successo. Le parole di Casini puntano a modificare il campo di gioco e a rimescolare le squadre. La strategia dei nuovi antiberlusconiani viene fuori così poco alla volta. Si svela, si colora, diventa nitida. Il piano esiste da tempo, solo che appare un pezzo alla volta. La situazione più delicata è quella del secondo padre del Pdl. Fino a che punto Gianfranco può camminare sul filo dell’ambiguità? E dove punta Fini? Qualcuno dice al Quirinale. Serve un ribaltone. Si attende la svolta, magari il Cavaliere esasperato che si appella al popolo: andiamo al voto. Lì il dado è tratto. Una sorta di referendum pro o contro Berlusconi. È quello che racconta quasi senza veli Italo Bocchino: «Se qualcuno, non dico Berlusconi, ma un suo qualche cattivo consigliere, pensasse di ricorrere alle urne, Fini potrebbe trovarsi costretto a correre da solo». Solo che il volto insanguinato di Berlusconi cambia tutto. Non è facile lasciarlo adesso. Non puoi sperare in un governo del Quirinale, magari con un personaggio super-partes, uno da auto blu. Non adesso, non ora. Le mosse di questi giorni cadono. Le parole di Casini si fanno più lontane. Fini e Berlusconi camminano su strade diverse. Non c’è più fiducia. Ma ora davvero una rottura non la capirebbe nessuno. Fini sapeva che il suo era un tuffo nell’ignoto. Ora lo è ancora di più.
Questo strappo, fino a ieri all’orizzonte, non è stato costruito sul nulla. Il presidente della Camera si è mosso per tempo: contatti, rassicurazioni, coperture. Il numero uno di Montecitorio ha curato i rapporti con l’estero, con Sarkozy, con Aznar e con la fondazione Adenauer. A febbraio vola a Washington, dove incontrerà il vicepresidente Joe Biden e lo speaker del Congresso Nancy Pelosi. È da un anno che cura il suo profilo bipartisan. I suoi uomini, compreso Bocchino, non nascondono che in campagna elettorale l’ex leader di An non sarebbe solo. Non solo i vari casini, Rutelli e soprattutto D’Alema, ma anche banche, comitati d’affari, poteri forti, e tutti quelli che sono pronti a cambiare fronte. Questa è la scommessa. Ma cosa vincerebbe Fini? L’eredità di Napolitano.
È lì sul Colle che c’è l’approdo finale. Berlusconi grida a chi lo contesta in piazza Duomo: «Vergogna, vergogna, vergogna». Si sta giocando tutto, senza più ipocrisie. Vuole la riforma della Costituzione. Non è più disponibile a tatticismi e compromessi. Fini su questo non lo segue. Non gli appartiene. L’incertezza era il tempo dell’uscita. Ma ora? Forse i tempi diventeranno molto più lunghi. I nuovi alleati, si sussurra in Parlamento, gli hanno promesso la presidenza della Repubblica. Questo è l’accordo, questo è il contratto. Il Quirinale si libera nel 2013 e lì in un’Italia post-berlusconiana lui avrebbe un ruolo di padre della nuova patria. È lo scenario di una Repubblica che riparte dal 1993, punta a chiudere in una parentesi quindici anni di berlusconismo, che cerca la sua legittimazione in una strana democrazia aristocratica, dove il voto è un optional. È la vittoria del Palazzo. È ancora valido questo scenario? Bisogna aspettare.


Gianfranco Fini, sdoganato da Berlusconi nel 1993, si ritroverebbe vent’anni dopo nel ruolo di garante istituzionale di una Repubblica che ha nel suo Dna il ripudio politico e culturale del berlusconismo. È una storia che vale un romanzo. Vent’anni dopo, quasi come Dumas. Ma il domani riparte da questo pugno in faccia. E Fini ha capito che c’è un’aria che sa di piombo.

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