Di Pietro è tornato alla carica contro il Quirinale. Dopo l’incidente di Piazza Farnese (ricordate le frasi sul «silenzio mafioso» di Napolitano con l’accusa di non essere più arbitro super partes?), il capo dell’Italia dei Valori è passato all’intimidazione diretta. È partito ieri l’ultimatum: la legge che regolerà le intercettazioni telefoniche non deve essere controfirmata dal presidente. Molti pensano che l’ex pm non abbia senso dello Stato, alcuni si convinceranno che Di Pietro è uscito di senno con questo continuo e offensivo tirare il presidente per la giacchetta. Ma forse c’è di più. Il «di più» ci aiuta a capire meglio la strategia e la tattica del capo dei manettari italiani.
Tatticamente Di Pietro deve registrare un sostanziale isolamento, malgrado le timidezze di Veltroni, nel panorama politico italiano. Se si guarda con attenzione al vecchio e tradizionale mondo giustizialista ci si accorge che sono venuti meno molti appoggi. Di Pietro ormai fa sponda con poco più di cinque o sei procure in Italia, con consulenti alla Genchi (lo vedrete stasera da Santoro) e con giornalisti che faticano a stare sulla cresta dell'onda. Le vecchia guardia giustizialista e molte procure lo hanno mollato. Sintomatica la dichiarazione di due giorni fa di Francesco Saverio Borrelli, storico capo del pool di Milano, che ha criticato l’eccessivo uso delle intercettazioni che fanno oggi le Procure della Repubblica.
La solitudine porta Di Pietro a difendere rabbiosamente i suoi alleati e le sue postazioni. Da qui la necessità di tenere «caldo» il tema «giustizia». Di qui l’offensiva. La certezza che al Quirinale siede uno dei più tenaci avversari del giustizialismo lo fa infuriare e lo spinge all’attacco preventivo per creare le condizioni di un rilancio del movimento che fa capo al suo partito, a Micromega, al gruppo di intellettuali che hanno lasciato l’area del Pd, come il sen. Passigli e il prof. Arlacchi, oltre che uomini di lettere come Tabucchi e Camilleri. Di Pietro non può star fermo. Il Quirinale gli sembra un bel bersaglio per combinare assieme difesa e attacco.
Ci sono altre due ragioni per cercare di dare un senso all’intimidazione continua verso il Quirinale. In un Parlamento semplificato, Di Pietro vuole vestire i panni della forza politica anti-istituzionale. Il suo obiettivo, dichiarato martedì nel corso della trasmissione di Enrico Mentana su Canale 5, è quel dieci per cento elettorale alle europee che gli consentirebbe di entrare nel novero dei partiti stabili. Questa cifra di voti Di Pietro pensa di raggiungerla raggrumando tutto il mondo che tradizionalmente si colloca all’opposizione e che oggi vive la crisi drammatica delle formazioni della sinistra radicale. Che cosa c’è di più anti-istituzionale dell’attacco alla più rappresentativa delle istituzioni? Di qui il fucile puntato sul Quirinale.
Di Pietro ha, inoltre, sempre nella sua corsa verso il dieci per cento elettorale, un altro obiettivo: il Pd di Veltroni. Dopo aver costretto l’ex sindaco di Roma ad un patto leonino (la storia ci dirà quali sono le vere ragioni che hanno spinto Walter a stipulare questa alleanza), Di Pietro vuole prosciugare la periferia dei democrats. L’attacco a Napolitano si riverbera immediatamente sul Pd. Napolitano, infatti, è la personalità più rilevante dello schieramento di centrosinistra. Mettere in discussione il Quirinale, e rappresentarlo come il luogo dello scambio occulto con Berlusconi, significa raccontare agli elettori scontenti che nessun uomo del Pd, anche quelli che ricoprono cariche rilevanti, è al di sopra di ogni sospetto. Due piccioni con una fava. L’attacco al Quirinale, nei progetti dell’ex pm, dovrebbe esaltare il gauchismo più esasperato e convincere elettori del Pd che non c’è più nulla da fare e che conviene affidarsi alla cura Di Pietro.
Nel ragionamento non bisogna trascurare anche ragioni di più bassa lega. Di Pietro vive anche lui, poveraccio!, l’assedio della magistratura attorno alla sua famiglia e ad alcuni suoi uomini. Quasi tutti nel suo partito lo seguono, molti non lo amano più.
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