Antonio Di Pietro è straordinario. Sia detto senza ironia e nel senso più letterale del termine: fuori dal comune. Negli anni è riuscito, infatti, a fabbricare e a far accettare alla maggior parte degli organi di informazione due realtà, governate da regole assolutamente in antitesi tra di loro. Una si applica all’universo mondo; l’altra a Tonino e ai suoi (pochi) amici.
Ieri il leader della sedicente Italia dei valori ne ha fornito l’ennesimo esempio. Attaccato dal Corriere della Sera che, con qualche anno di ritardo, gli chiedeva conto di alcune delle innumerevoli ombre che caratterizzano il suo multiforme percorso, l’ex magistrato più famoso d’Italia ha preso carta e penna e si è esibito in uno dei suoi pezzi forti: la risposta perentoria-omissiva. Una lunga spataffiata piena di mezze verità. Qualche esempio a caso.
«Non sono affatto stato convocato dai magistrati di Firenze con “tanto di apposito decreto di notifica”», scrive il Tonino nazionale. Sembra una smentita senza possibilità di replica, in realtà è un trucco verbale. La traduzione è: «Sono stato convocato, ma NON con apposito decreto». Peccato che Di Pietro, il giorno che era stato interrogato in merito ai suoi rapporti con la «cricca», avesse sbandierato ai quattro venti tutt’altra versione: «Mi sono presentato spontaneamente, sono un testimone d’accusa». Notare che questa figura nel processo italiano non esiste, l’ex pm l’ha presa pari pari dai telefilm americani ma, salvo pochissime eccezioni, la stampa di cui tanto si lagna gliel’aveva data per buona. Oggi, nel suo modo contorto, ammette che era una bufala.
«Non è affatto vero che io mi sia laureato in modo anomalo», proclama il Grande Moralizzatore, specificando di aver concluso l’università nei quattro anni previsti. Già, ma l’anomalia era un’altra: aver sostenuto in appena 32 mesi ben 22 esami, tra i quali diritto privato, diritto pubblico, diritto amministrativo. Un’impresa al limite dell’umano, chiedere per conferma a qualsivoglia studente di Giurisprudenza.
«Le accuse circa i miei presunti favori ricevuti da Pacini Battaglia, da Antonio D’Adamo e da Giancarlo Gorrini sono state tutte smontate dai giudici di Brescia». Certo, gli ex colleghi sono stati benevoli con Di Pietro. Ma ciò non toglie che quei favori dai suoi inquisiti (soldi a tranche di 100 milioni, pied à terre a disposizione, incarichi e consulenze per parenti e amici e via elencando) non sono affatto «presunti». Ci sono stati, sono agli atti: «Fatti specifici che oggettivamente potevano presentare connotati di indubbia rilevanza disciplinare», è scritto nella sentenza.
E qui siamo al cuore del problema. Delle sentenze Di Pietro (così come il suo aedo Travaglio, che anche ieri sul Fatto quotidiano si è lanciato in una incespicante difesa dell’eroe) prende quel che gli fa comodo. Se, come in questo caso, dà ragione a lui, allora va bene il risultato finale: sono stato assolto, inutile andare a vedere i dettagli. Se invece l’assoluzione di altri non gli garba, allora eccolo spaccare il capello in quattro, scavare nei dispositivi alla ricerca della parolina accusatoria. O dare del corruttore a persone in realtà mai condannate per corruzione.
È il sistema Di Pietro: giustizia sommaria per gli avversari, ipergarantismo per se stesso. Ha fatto la tricoteuse ai piedi della ghigliottina mentre i giornali facevano sfilare chiunque fosse venuto a contatto con la «cricca». Quando è toccato a lui, interrogato a Firenze, ha fatto il furbo. Ma quando la lista Anemone gli è entrata, è il caso di dirlo, in casa, con gli appartamenti di Propaganda Fide assegnati al suo braccio destro Silvana Mura e al giornale del suo partito, allora Tonino-Robespierre è esploso. E si è rifugiato nella sua seconda vita.
«Se l’informazione dei quotidiani nazionali è di così bassa lega allora non vale la pena pagare un solo cent né per stamparli né per comprarli», ha tuonato l’uomo che va in piazza per difendere l’informazione libera. «Querelo!», ha strillato il recordman delle querele ai giornali che per protestare contro la querela a un giornale (ma l’aveva fatta Berlusconi a Repubblica...) ha fatto processare l’Italia al Parlamento europeo.
«Se la notizia è falsa e ad essa si dedicano pagine, approfondimenti e commenti, la responsabilità va ricondotta sia a chi dirige questi giornali sia a chi dirige i direttori dei giornali», ha scritto il paladino della libertà di stampa di cui sopra. Ma chi lo dice che la notizia è falsa? Perché se l’architetto Zampolini parla di casa Scajola è un evangelista, mentre se parla di casa Mura è un volgare mentitore? E perché i quotidiani che fino a ieri Tonino definiva «minacciati dalla legge bavaglio» dovrebbero tacere proprio quell’informazione e non altre?
Ma il capolavoro dipietresco deve ancora arrivare. Gustatelo in tutte le sue doppiopesistiche sfumature: «È in malafede chi accomuna la mia situazione, di pura diffamazione, a quella di persone le cui accuse devono sì essere provate in un tribunale, ma sono largamente documentate da intercettazioni e testimonianze incrociate». Intercettazioni come quella degli «incriccati» Fusi e Bartolomei che tirano in ballo l’ex ministro Di Pietro.
Testimonianze come quella di Zampolini che parla delle case Anemone per l’Idv. Ma dimenticavamo: qui siamo nell’altra realtà, quella dove il sospetto non è l’anticamera della verità, quella dove i giornali devono mettersi il bavaglio da soli. La realtà che vale solo per Tonino e C.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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