La debolezza del centrosinistra, le slabbrature di una maggioranza che fatica a trovare obiettivi comuni, hanno subito prodotto, come effetto collaterale, un'ondata di attivismo delle procure. I politici parlano, si contraddicono e si dividono, la magistratura intanto agisce e occupa gli spazi vuoti. È successo così anche con Silvio Viale, il ginecologo che nel settembre 2005 ha avviato la sperimentazione della Ru486, la pillola abortiva, all'ospedale Sant'Anna di Torino. Sull'attività del medico, dirigente radicale, si è aperta un'indagine per violazione della legge 194, che impone che l'interruzione di gravidanza avvenga nelle strutture pubbliche.
La Ru 486 è un metodo abortivo incerto, pericoloso, doloroso e lungo, che è stato spacciato, con una stupefacente e brillante operazione di marketing, come una pratica che avrebbe liberato le donne dalle sofferenze fisiche e psichiche dell'aborto chirurgico. Che il metodo fosse in palese contraddizione con la legge italiana era evidente a chiunque si prendesse la briga di raccogliere qualche informazione: con la pillola non si può sapere quando avviene l'espulsione dell'embrione, la quale nella maggioranza dei casi si verifica al 4° giorno, ma può avvenire anche molto tempo dopo. Non solo: l'aborto si può definire concluso solo quando si accerta il completo svuotamento dell'utero, con una visita finale che in genere nei protocolli è fissata dopo 15 giorni dall'assunzione del primo farmaco. Impossibile dunque ritenere che i vari momenti in cui è articolata la procedura medica, lunga e complicata, siano compatibili con la garanzia che tutto avvenga all'interno delle strutture sanitarie pubbliche. Per essere certi che le donne abortiscano in ospedale, le degenze dovrebbero durare dai 4 ai 15 giorni; ma bisogna considerare che una piccola percentuale di donne supera anche i famosi 15 giorni, e completa la via crucis del metodo chimico dopo un mese o anche più.
Ovunque, nel mondo, la Ru486 è sinonimo di aborto a domicilio. Il medico si limita a qualche accertamento clinico e a fornire le pillole, gli antidolorifici e il foglietto delle istruzioni in cui è spiegato che non bisogna mai allontanarsi troppo da un pronto soccorso attrezzato, si deve controllare costantemente il flusso di sangue, e saper gestire eventuali situazioni di emergenza. Tutto questo i politici lo sapevano (e sarebbe grave se così non fosse), prima e dopo che la sperimentazione del Sant'Anna fosse autorizzata dal Ministero. Lo sapeva il presidente della Regione Piemonte Mercedes Bresso, quando definiva l'obbligo al ricovero, richiesto dall'allora ministro Storace, «una vessazione»; lo sapeva Barbara Pollastrini, oggi ministro delle Pari opportunità, quando sosteneva che dietro l'intervento del ministro di An si celasse un attacco alla 194. La verità è che la legge sull'interruzione di gravidanza sarebbe messa in serio pericolo proprio da un'eventuale introduzione della Ru486, ed è per questo che alcune forze politiche, come la Rosa nel Pugno, l'hanno sponsorizzata.
Forse non tutti ricordano che nel 1981 i referendum contro la legge sull'interruzione di gravidanza furono due, uno abrogazionista, di parte cattolica, e uno radicale, che mirava ad estendere la pratica dell'aborto anche ai privati. Entrambi furono bocciati a schiacciante maggioranza.
Viale è un onesto militante, e non ha mai nascosto che le donne che si rivolgono al Sant'Anna per abortire con il metodo chimico tornano in gran parte a casa, sgusciando tra le maglie delle norme. Ma quando la Commissione di farmacovigilanza pose concretamente la questione e Storace sospese la sperimentazione a poche settimane dal suo inizio, in attesa di chiarimenti, la sinistra scelse decisamente lo scontro ideologico, contribuendo alla generale disinformazione e avallando il mito dell'aborto facile e indolore.
L'indagine della magistratura riapre il problema: vogliamo introdurre la Ru486 e l'aborto casalingo o vogliamo tenerci la legge 194 e l'aborto negli ospedali? Non è Silvio Viale il colpevole di questa confusione, non è su di lui che devono ricadere le ambiguità e le mancate risposte di chi ha responsabilità politiche. La politica deve esprimersi con chiarezza, senza concedere deleghe in bianco, e senza farsi continuamente sorprendere dalle iniziative dei magistrati.
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