Pirandello, il dolore che non fa scena

L’antologica ripercorre l’attività del pittore dal 1935 agli ultimi anni e comprende anche alcuni capolavori

Elena Pontiggia

Brutta cosa, essere figli di un genio. Pessima, se si decide a propria volta di fare l'artista. È quanto è capitato a Fausto Pirandello, figlio del grande drammaturgo, rimasto per tutta la vita, appunto, «il figlio di Pirandello» e meno conosciuto di quanto la sua arte, potente e dolorosa, avrebbe potuto meritargli.
Chi non avesse un'idea precisa della sua pittura, può approfittare della bella mostra che gli dedica ora lo Studio Gian Ferrari, nella nuova sede di via Corridoni 41. L'antologica, aperta fino al 21 luglio, accompagna l'artista dal 1935 agli ultimi anni e comprende anche alcuni capolavori. Citiamo, per esempio, le «Donne del Lazio», esposte alla Quadriennale di Roma del 1935 e presentate lo scorso anno al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid: due figure cariche di un realismo così disincantato, che valgono cento trattati di filosofia sulla condizione dell'uomo contemporaneo.
Oppure citiamo «La famiglia dell'artista» del 1942. È un quadro che non tenteremo di descrivere perché bisogna vederlo, con quell'espressione della donna al centro della composizione: una donna che non si fa illusioni e che ha capito tutto, non solo della famiglia in generale, ma anche del resto.
O, ancora, citiamo «Bagnanti (Figure nel bosco)», del 1944: due donne appesantite, che suggeriscono tutto il peso della vita. È un'opera che segna la fine di quel sogno di un rapporto di armonia totale fra uomo e natura, che gli inizi del secolo avevano coltivato.
La grandezza di Pirandello, però, consiste nella capacità di non eccedere nel negativo, di non fare teatro con la sua angoscia. E di mantenere in ogni opera, nonostante la drammaticità, una sottile bellezza, affidata a certe ocre calde, a certi blu sacerdotali, a certe gamme di rosa e di argilla che sembrano prese non da una tavolozza, ma dal tornio di un vasaio antico.
Pirandello era nato a Roma, nel 1899. Richiamato in guerra dopo Caporetto (era appunto un «ragazzo del '99»), abbandona gli studi liceali, che non riprenderà più. All'inizio si dedica alla scultura, assecondando una vocazione plastica che rimarrà costante nelle sue opere. Poi, nel 1920, si iscrive all'Accademia di Nudo, e guarda soprattutto a Van Gogh, Gauguin, Kokoschka. Nel 1927 compie il suo primo viaggio a Parigi, dove conosce i cosiddetti «Italiens de Paris», da De Chirico a Savinio, da Campigli a Severini. Rientrato in Italia, si avvicina alla Scuola Romana di cui condivide la ricerca pittorica affidata al tonalismo, ma rimane sempre in una posizione appartata. Nel dopoguerra si confronta invece con l'astrattismo e l'informale.

La sua è un'arte drammatica, che però conosce improvvise tenerezze. «Dipingo dalla mia finestra - scrive nel 1952 -. C'è quel cielo poco male, né bianco né azzurro né grigio, che sa di fuliggine, ma anche di primavera».

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