Occhi e lune è la mostra di 40 dipinti nei quali Alessandro Papetti (Milano, 1958) interpreta in chiave contemporanea alcuni temi dell'arte di Edvard Munch, dai ritratti ai paesaggi notturni, in una sintonia e continuità ideale motivata dal desiderio di definire l'anima e l'appartenenza. L'interessante mostra si inaugura sabato 25 settembre negli spazi di Villa Manin, a Passariano di Codroipo (Udine)
Se infatti la pittura si può accostare, pur trattandosi di artisti di epoche diverse, lo si può fare, come dice lo stesso Papetti, "per appartenenza a un modo di sentire e a una qualità dell'anima che si rispecchia". Il senso di questa mostra va cercato proprio in questa sintonia che motiva la ricerca pittorica. Papetti ha amato molto Munch, soprattutto durante le sue prime "scoperte" giovanili, quando cercava i tasselli che combaciassero tra loro, lo aiutassero a costruire la struttura della sua pittura. Munch ritraeva il volto di quell'anima che anche Papetti stava, senza saperlo, disvelando a se stesso. La capacità potente di fare pittura dell'inconscio; una pittura intima e implosiva allo stesso tempo. Munch ha aiutato l'artista a capire che attraverso il dipingere, il fare pittorico, si può vivere e accettare il giusto timore di provare paura, di sentirsi consapevolmente inesatti e, fortunatamente, incompiuti; si può entrare e uscire nella luce, così come uscire o cadere nel buio. E questa ricerca Papetti l'ha portata avanti nel tempo con coerenza. I suoi quadri, sia che si tratti di interni, di officine vuote o di figure sono caratterizzati dall'incisività del segno distribuito direttamente sulla superficie della tela, senza l'uso di matita o fusaggine. I colori sono freddi e accompagnano le pennellate sempre vigorose e precise; nessun segno è fuori posto, il loro intrico evidente, il loro groviglio diventa perfezione esecutiva. I viola, i bianchi, i verdi, il grigio, il marrone delineano i personaggi e le cose con una forza e uno spirito di osservazione che non vengono mai meno.
Si potrebbe definire una sorta di moderno espressionismo: le figure - ritratti o nudi -, gli animali squartati o le macchine in disuso, immobili; le persone sono in piedi con deformanti prospettive verticali o sedute su una vecchia poltrona. Tutto di queste immagini risponde al precipitare del tempo, lacera il silenzio nel quale si consumano le sofferenze nascoste ed esprime una sensazione di lamento che sembra un grido trattenuto. Le forme, le linee si sfilacciano, il colore si incupisce, tutto suggerisce qualcosa di tragico sempre meno riscattabile dalla pittura. La forza espressiva di queste immagini è appena trattenuta dai limiti e dalle esigenze della comunicazione. Papetti sembra indicare come, al di là di questi limiti, non ci sia che l'urlo, la caduta. Davanti a questo vuoto, davanti a questa immobilità e indifferenza, al pittore non sembra rimanere altro che uno sguardo capace di scavare in profondità nei paesaggi (siano essi figure, oggetti o ambienti) attraverso un metodo d'indagine storico-psicologico che pittoricamente ricorre alla tecnica dello straniamento.
Il disorientamento generale dell'uomo crea un vuoto che però è anche condizione di verità, l'unica premessa possibile per un viaggio tra cose e persone incapaci di comunicare. La ricerca continua di Papetti è lo scavo sofferto nella coscienza al fine di recuperarne dei frammenti costruttivi.
E poi arrivano le opere create appositamente per Villa Manin e come meglio esprimerle se non citando alcune frasi del curatore Marco Goldin "per i quadri del 2010, dipinti per questa mostra di Villa Manin, accanto alle opere di Munch. Papetti ha lavorato ancor di più, si direbbe, attorno al senso della luna. Quella luna che Munch guardava nelle notti interminabili sulla spiaggia di Åsgårstrand. E che poi è diventata motivo di alcuni tra i quadri suoi più belli dell'ultimo decennio dell'Ottocento. Per Alessandro una suggestione in più, la volontà di collocare le sue figure nel vento dentro quello spazio che è notte e giorno insieme, che è, più di prima, gorgo dell'inesprimibile. E figure anche più sofferte, lacerate in un loro incomunicato dolore che le fa goccia di temporale, fiato di lavanda, spine di rose notturne. Figure che si avvicinano di più al bordo, al nostro confine, per sperimentare lo spazio di una possibile carezza, di un di più d'amore. Di un tocco che le tenga, vive, dalla parte della vita. Nel loro dichiarare la potenza della grazia e del respiro, dello sguardo che s'intravede appena nella calotta polare di una notte che non del tutto annotta.
Su quel loro ciglio stanno, uniche, sole, irresistibili, mai del tutto consumate dal buio o dalla luce. Prese dall'evidenza del mistero, e perciò ferme, bloccate, irrisolte. Ma anche risolte, una volta per sempre, perché vicine allo scatto fotografico. Eppure lontane, lontanissime da tanta pittura che alla fotografia, vedi com'è la moda, si appoggia. Dentro Papetti, e mi verrebbe da dire dentro il suo cuore, rimane lo sguardo stupito di chi s'interroga ancora su cosa sia lo spazio, su come l'uomo lo attraversi, da quali ferite ne sia segnato, e come lo spazio contenga il tempo. O il tempo contiene lo spazio e tutto è uno.
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