110 ostaggi, tra cui 80 israeliani, in cambio di 240 prigionieri palestinesi. Questo il bilancio finale della tregua durata sette giorni e concordata da Tel Aviv con Hamas attraverso una complicata mediazione del Qatar e che adesso sembra andata in mille pezzi. L’attacco terroristico compiuto ieri ad una fermata del bus a Gerusalemme da uomini appartenenti al movimento islamista ha ricordato la pericolosità dell’organizzazione e dei suoi affiliati accendendo i riflettori sul rischio alla sicurezza determinato dai detenuti rilasciati dalle carceri dello Stato ebraico.
I quotidiani israeliani hanno cominciato ad analizzare i profili dei prigionieri palestinesi evidenziando infatti il passato violento di molti di essi. Secondo quanto riportato dal Times of Israel che ha avuto accesso ai dati parziali dell’Israel Prison Service e dell’Idf, 64 dei 117 detenuti liberati nei primi tre giorni di tregua erano in prigione per crimini violenti. Tra questi, 10 erano trattenuti per tentato omicidio, 13 per aver ferito gravemente altre persone, 19 per aver collocato dispositivi esplosivi o lanciato bombe incendiarie, sette per aver sparato e cinque per aggressione. Il 21% dei prigionieri è ritenuto far parte di Hamas e della Jihad islamica. Solo per 10 su 117 donne e minori oggetto dello scambio il crimine più grave è quello del lancio di pietre, uno strumento di protesta diffuso nei Territori palestinesi.
Israa Jaabis è stata condannata per il ferimento di un poliziotto mentre cercava di far esplodere una bombola di gas che trasportava nel bagagliaio della sua vettura ad un posto di blocco in Cisgiordania. L’esplosione le aveva causato ferite al volto e la sua richiesta per un intervento di ricostruzione del naso a spese dello Stato israeliano le era stata negata. Marah Bakeer è stata invece fermata quando aveva 16 anni per aver aggredito con un coltello un poliziotto di frontiera. “Sono felice ma la mia liberazione è arrivata a prezzo del sangue dei martiri”, la sua prima dichiarazione da donna libera. Un passato criminale che la accomuna alla ventinovenne Rawan Nafez Mohammad Abu Matar detenuta per l’accoltellamento di un soldato dell’Idf e a Nurhan Awad la quale aveva aggredito i passanti con delle forbici.
Con la ripresa dei combattimenti nella Striscia di Gaza, Israele si interroga sul prezzo pagato per la liberazione di decine dei suoi ostaggi. I precedenti non sono rassicuranti. La liberazione nel 2011 del soldato Gilad Shalit dopo cinque anni di prigionia è arrivata solo dopo il rilascio di oltre 1000 detenuti palestinesi tra cui Yahya Sinwar, il capo di Hamas ritenuto tra i principali organizzatori degli attacchi compiuti il 7 ottobre. Da quel momento Sinwar aveva mantenuto un profilo basso e in apparenza conciliante nei confronti dello Stato ebraico al punto da far ritenere al premier Benjamin Netanyahu che l’organizzazione islamista avesse abbandonato la lotta armata e fosse più concentrata ad amministrare i territori che controlla dal 2007.
Con la tregua concordata e finita all’alba di oggi l'altra riflessione in corso in Israele in queste ore riguarda la deterrenza, un concetto quasi sacro per lo Stato ebraico. Michael Oren, ex ambasciatore israeliano a Washington durante la presidenza di Barack Obama, si chiede infatti"cosa accadrà quando si diffonderà il messaggio che possiamo essere colpiti più o meno con impunità e che quando cerchiamo di difenderci qualcuno ci impone un cessate il fuoco?".
Per il momento la risposta più eloquente arriva da Hanan Al Barghouti, una prigioniera appena rilasciata, sorella di un comandante di Hamas ancora detenuto:"Voglio salutare le persone di Gaza, abbiamo già vinto ma non ci fermeremo fin quando non avremo cacciato gli occupanti e tutti saranno liberi, compreso mio fratello".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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