La politica parla con i numeri, ma poi i conti non tornano mai

Numeri, numeri, numeri. Berlusconi parla di 7,5 milioni di italiani intercettati, i magistrati dicono che non è vero. Sono molti di meno. I numeri di Tremonti, i numeri del sindacato, i numeri dell’Ocse, i numeri della Bce, di Bankitalia, dell’Ocse e dell’Istat, della Rai e di Santoro, di Benigni e Caravaggio. Numeri, numeri, numeri. Sembra quasi che abbiano sostituito le parole. Si parla con i numeri. Si pensa con i numeri. Si sogna, si litiga, ci si impicca. O come disse Calderoli a Tremonti: «Giulio non fare terrorismo con i numeri». Tutti li citano, ma nessuno li condivide. In questa saga della matematica i conti non tornano mai. A che servono? A certificare la verità. Sono l’ipse dixit, l’episteme contro la doxa degli altri. I numeri sono il rifugio di assoluto in questa stagione senza certezze. Ma sotto questi numeri non c’è nulla. Sono la maschera che nasconde la crisi della politica. Calcolo ergo sum. Purtroppo, o per fortuna, non basta. Quando Berlusconi sbottò sulla manovra intuì l’inganno: «Un conto sono i numeri, un conto è la politica». I conti li faccia pure il titolare di via XX Settembre, ma la politica spetta a Palazzo Chigi.
Il dubbio allora è: e se i numeri fossero stupidi? Ti circondano, ti inseguono, ti stanno addosso. L’economia li snocciola come sentenze. La politica li ha adottati. Stampa e affini li mettono nel ventilatore. È la dittatura della statistica. Il guaio è che tutti questi numeri, gettati così, come un oroscopo quotidiano, fanno soltanto chiasso: Pil, debito pubblico, manovre, indici, tassi, percentuali, quante volte figliolo, barili di petrolio, sulle acque del Golfo, auditel, telespettatori, automobilisti in transito, i milioni della cricca, della casta, delle banche, sondaggi, stime, exit poll, e numeri, numeri, ancora numeri. Questo pallottoliere dovrebbe raccontarci che nulla sfugge, nulla è a caso. Non si bluffa e non si bara. Basta incrociare questa matassa di dati. E invece quello che resta è solo un rumore di fondo, una nota afona sempre uguale. È l’effetto vuvuzelas. Dopo un’ora e mezza sei cotto e sfatto.
La gente per strada si chiede il senso di questo «ciarlare» di numeri. Non ci sono serviti per prevedere la crisi e neppure per capirla. Non bastano per governare. Non fanno una maggioranza, perché ci sarà sempre un Fini che disturba. Non ti dicono neppure dove tagliare gli sprechi e le spese. Solo che non è colpa dei numeri. Loro non sono mai stati assoluti. La matematica non è una religione. Il bello dei numeri è che parlano, raccontano storie, sono lo specchio sincero della realtà, ma se sono solo un vuoto di parole allora ognuno li piega come vuole. È chiacchiericcio. Non rappresentano nulla. È un po’ quello che sta accadendo in molti sport.

Pensate al basket dove le statistiche valgono di più del coraggio o di un gancio cielo. Pensate al tennis raccontato per prime palle o chi nel calcio vede solo 4-4-2 e mette di lato la fantasia. Quando in un Paese si parla troppo di numeri, allora la politica ha messo in panchina le idee.

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