Il diavolo fa le pentole, ma non tutti i coperchi. Il diavolo (si fa per dire) in questo caso è Israele. Per i suoi leader politici e militari lo scontro diretto con Hezbollah è indispensabile per garantire il ritorno a casa dei 60mila abitanti delle regioni settentrionali evacuati negli ultimi mesi. In questa prospettiva il Mossad e Aman (l'intelligence militare) avevano messo a punto un piano perfetto per mettere al tappeto i quadri dell'organizzazione nemica nelle prime ore di combattimenti. La dichiarazione di guerra era arrivata, a livello politico, durante il Gabinetto di Sicurezza della scorsa domenica. «La situazione nel Nord non può continuare - aveva detto il premier Benjamin Netanyahu - l'Idf deve prepararsi a una vasta campagna in Libano». Un conflitto dato per scontato anche dal premier libanese Najib Mikati che ieri ha detto «Siamo in guerra». Il tutto mentre Hezbollah annuncia una «vendetta unica e sanguinosa». Sul fronte diplomatico, invece, il Consiglio di Sicurezza dell'Onu prepara una riunione d'emergenza e il Segretario Generale Antonio Guterres depreca la «trasformazione in armi di oggetti di uso civile».
In tutto ciò annunciare l'invasione e realizzarla non è semplice neanche per Israele. Per metterla in moto deve mobilitare centinaia di migliaia di riservisti e spostare le unità impegnate a Gaza 200 chilometri più a Nord. Mentre quest'ingranaggio bellico incominciava a girare qualcosa nel sofisticato meccanismo di sabotaggio dei cerca-persone non ha funzionato. Per motivi ignoti, legati forse al malfunzionamento di qualcuno dei 3mila congegni riempiti di micro-cariche, i responsabili dell'intelligence israeliana hanno deciso di innescare gli esplosivi con largo anticipo rispetto al previsto sfondamento del confine settentrionale. L'effetto è stato comunque devastante. I possessori dei pager e delle radio a micro-frequenza esplose ieri con 24 ore di ritardo, non erano semplici soldati, ma graduati abilitati a ricevere e trasmettere ordini riservati. Tra gli oltre 3mila accecati, mutilati e gravemente feriti vi sono miliziani con ruoli che vanno dal sottufficiale al generale.
Pur avendo parzialmente vanificato l'effetto sorpresa, Israele può dunque vantare la disarticolazione delle strutture militari di Hezbollah dal livello medio-basso fino a quello più alto. Ma non può sottovalutare i 100mila missili ancora in grado di colpire il suo territorio. Quanto basta, viste le brevi distanze, per saturare i sistemi anti missile e vanificare, almeno in parte, l'intervento di un'aviazione costretta a misurarsi con un'intensa attività antiaerea. Tutti fattori che fanno prevedere un alto numero di perdite civili e militari nella prima settimana di scontri. Una settimana considerata il tempo minimo necessario a Israele per «ammorbidire» gli avamposti e le reti di tunnel disseminate nei 30 chilometri tra il confine e un fiume Litani primo obbiettivo dell'avanzata israeliana. A quel punto si aprirebbero gli scontri diretti in territorio libanese. Stando alle stime più accreditate Hezbollah dispone di 20mila combattenti in linea e di altri 20mila pronti ad affiancarli nelle prime ore di ostilità. Questo senza contare la più vasta rete di militanti e veterani mobilitabili nelle settimane successive. Una macchina militare ben più addestrata e rodata di quella di Hamas sopravvissuta, nonostante tutto, a 11 mesi di operazioni condotte su un territorio di appena 360 chilometri quadrati a fronte dei circa 10.500 del Libano. Un Libano dove tunnel e fortificazioni sono ancor più profondi e sconosciuti di quelli disarticolati con grande sforzo nella Striscia.
I 3mila militanti messi fuori gioco in un colpo solo rappresentano, insomma, un buon inizio tattico, ma insufficiente a garantire la risoluzione strategica di un conflitto destinato probabilmente a prolungarsi per anni. Come già scoprì Ariel Sharon nel lontano 1982.
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