Adesso i legali della Alpi Aviation di Pordenone, ultima preda italiana del disinvolto shopping cinese di tecnologia, garantiscono che la cessione a Pechino del controllo aziendale è avvenuta «in modo trasparente e nel rispetto della normativa». Eppure nelle carte dell'inchiesta della Guardia di finanza non c'è traccia né delle richieste né tantomeno delle autorizzazioni di cui l'azienda friulana avrebbe avuto bisogno anche solo per iniziare le trattative con il governo di Pechino. Perché un dato è certo: al termine della lunga serie di undici «scatole cinesi» (per l'appunto...) a monte della azienda di Hong Kong che ha rilevato il 75% di Alpi Aviation si approda alla Sasac, la commissione per la supervisione dei beni di Stato del regime comunista, e al comitato di sviluppo della zona di Wuxi Liyuan. Era il governo cinese, insomma, a tenere le chiavi dei segreti industriali ad alta tecnologia industriale dell'azienda italiana, quelli che l'avevano fatta inserire nell'elenco dei fornitori del nostro apparato di difesa. Un business ghiotto ma soggetto a regole precise: non si tratta con gli stranieri senza il permesso di Palazzo Chigi. «In discussione - spiega il comandante delle fiamme gialle di Pordenone, Stefano Commentucci - non c'è l'ingresso in Italia di capitali stranieri, che è positivo se riconducibile a vere operazioni di investimento. C'è l'esigenza di tutelare in alcuni settori, come la sicurezza e ora la sanità, le esigenze del paese attraverso autorizzazioni e controlli». Che in questo caso sono stati aggirati. Tra le tecnologie finite così in mano ai cinesi, quella per la produzione dei sistemi Uav (Unmanned aerial vehicle), dei droni bellici di ultima generazione conformi agli standard Nato. Nel registro degli indagati della Procura finiscono sei nomi: tre sono dirigenti italiani della Alpi Aviation, tre sono cittadini della Repubblica popolare che nello stabilimento friulano si muovevano ormai da padroni.
Delle incursioni cinesi nei settori strategici italiani - dai porti alle telecomunicazioni - sono piene le cronache economiche e le denunce di politici di centrodestra, primo fra tutti il neopresidente del Copasir Adolfo Urso. Ma la gravità della vicenda Alpi Aviation è tale che deve muoversi anche il Pd, con la capogruppo alla Camera Deborah Serracchiani che lancia l'allarme sulla «pulsione espansiva» del governo cinese. Che non si fermavano solo alla Alpi: sul tavolo Pechino era pronta a mettere fino a cento milioni per acquisire una azienda milanese di punta nel settore dell'ambiente e dei rifiuti, altro business crescente. Ma l'accordo non è stato raggiunto.
A Pordenone, invece, l'accordo era stato raggiunto eccome: a partire dal 2018 i cinesi versano un prezzo novanta volte superiore al costo nominale per impadronirsi della maggioranza dell'azienda che produce i droni.
Che a muoversi sul filo del rasoio non era peraltro nuova: dai documenti riservati rivelati da Wikileaks si scopriva che già nel 2009 l'intelligence americana aveva segnato agli omologhi italiani una serie di triangolazioni con Giappone e Iran che permetteva l'approdo al regime di Teheran di tecnologie ad alto rischio. Nonostante la diffusione dei cablo, i rapporti tra Alpi Aviation e le dittature straniere erano proseguiti al punto che lo stand dell'azienda italiana era stato presente nel 2019 alla Fiera internazionale di Shanghai.
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