Si fanno chiamare «antifa» e al pari dei fratellini italiani ed europei di cui riprendono nome e ideologia si arrogano non solo il diritto di decidere chi sia fascista e chi no, ma anche di attaccarlo e colpirlo usando ogni forma di violenza. Proprio per questo il Procuratore alla Giustizia William Barr li considera i fomentatori occulti dei disordini che incendiano le città americane. Il direttore dell'Fbi Chris Wray annuncia, invece, indagini a livello federale per individuare chi stia commettendo violenze collegate alla loro specifica ideologia.
Gli «antifa» che Donald Trump promette d'incriminare per «terrorismo» e sbattere in galera sono dunque i fratellini a stelle e strisce dei nostri centri sociali e di quei «black bloc» anarco-insurrezionalisti responsabili di tante scorrerie nelle città italiane ed europee. Definirli un prodotto d'importazione non è però corretto. La prima apparizione di dimostranti vestiti di nero e con i volti coperti da passamontagna risale al 1967 quando gli antesignani dei «black bloc» sfilano a Wall Street. E anche la loro prima grande scorreria è in quella Seattle che nel 1999 ospita la Conferenza del Wto (l'organizzazione mondiale del commercio). Il nome e l'etichetta «antifa», apparsi per la prima volta a Portland nel 2007, si diffondono, invece, solo con l'affermarsi di Donald Trump. Per le frange anarchiche e di estrema sinistra «ciuffo biondo» diventa il volto e l'immagine del loro immaginario nemico fascista. Per le autorità il marchio «antifa» è invece sinonimo di vandalismo. Nel febbraio 2017 i disordini scatenati all'università di Berkeley spingono anche la democratica Nancy Pelosi a chiederne l'incriminazione. Pochi mesi dopo però gli «antifa» tornano in azione a Charlottesville in Virginia, dove danno l'assalto ad una manifestazione di suprematisti bianchi, neonazisti e incappucciati del Ku Klux Klan.
Considerarli i registi e gli unici artefici della violenze di questi giorni potrebbe però rivelarsi eccessivo. Nonostante la proliferazione di sigle gli «antifa» restano un movimento marginale, numericamente esiguo e senza una leadership e di un coordinamento nazionale. L'aggressivo e capillare impiego della rete, unito al sapiente utilizzo delle tecniche di guerriglia urbana, potrebbe però aver consentito ai pochi, ma rodati militanti «antifa» di mettersi alla testa delle frange più radicali della protesta. Incriminarli per terrorismo, come promette di fare Donald Trump, non è però semplice. Non avendo né dei capi, né una struttura nazionale gli «antifa» non possono essere considerati una vera e propria organizzazione. E se anche lo fossero mancherebbe una legge capace di trascinarli sul banco degli imputati. La classificazione delle organizzazioni terroristiche come Al Qaida o lo Stato Islamico comprende solo le organizzazioni straniere inserite nelle apposite liste del Dipartimento di Stato.
Manca invece un registro in grado di elencare i gruppi terroristi di natura interna.
Inoltre la legislazione statunitense, pur specificando gli atti classificabili alla stregua di terrorismo, non ha mai definito la natura di eventuali organizzazioni terroristiche operanti sul territorio federale. Quindi per incriminare e sbattere in galera gli «antifa» Donald Trump deve prima far approvare dal Congresso una legge che gli consenta di farlo.
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