Primule, mascherine, siringhe, vaccini. L'ultima grana è arrivata ieri dalla procura di Perugia che ha incaricato i carabinieri del Nas di acquisire presso la struttura del commissario straordinario Domenico Arcuri, oltre che presso l'Aifa (l'Agenzia del farmaco), la documentazione per accertare le modalità di approvvigionamento dei vaccini e quelle per la distribuzione tra regioni e se risultino regioni che abbiano inoltrato istanze ai fini dell'approvvigionamento diretto.
Evitate le conferenze stampa del giovedì nella transizione all'era Draghi, Arcuri traballa ma resta, seppur fortemente ridimensionato dal ruolo di super commissario, alla guida della struttura all'emergenza. Riconfermato insieme col ministro della Salute Roberto Speranza, che ha gestito in asse con l'ad di Invitalia un anno di pandemia. Ma sono varie le criticità della campagna vaccinale tutta in salita nel mirino dell'evidente stroncatura da parte del neo premier. Soprattutto l'operazione Primule. «Non dobbiamo limitare le vaccinazioni all'interno di luoghi specifici, spesso ancora non pronti: abbiamo il dovere di renderle possibili in tutte le strutture disponibili, pubbliche e private», ha detto Draghi. Il riferimento è al progetto che avrebbe dovuto portare all'installazione di 3mila padiglioni in tutti i Comuni d'Italia. Invece sì useranno caserme, palestre e ogni luogo già disponile. Ci sarà l'arruolamento dei militari e dei medici di famiglia. Metodo Draghi, dunque. Una sterzata rispetto alla gestione commissariale, con l'ingresso in campo dell'ex presidente della Bce che farà valere tutto il suo peso nei tavoli europei anche per accelerare l'immunizzazione.
«La velocità - ha detto Draghi nel suo discorso programmatico - è essenziale non solo per proteggere gli individui e le loro comunità sociali, ma ora anche per ridurre le possibilità che sorgano altre varianti del virus».
Ma la gestione del commissario è da mesi oggetto di polemiche, non solo sui vaccini. Anche sull'acquisto delle siringhe, sul potenziamento delle terapie intensive, con bandi gara arrivati a ridosso della seconda ondata, quando i contagi tornavano a salire e negli ospedali mancavano posti letto e anestesisti. E poi la Procura di Roma ha avviato un'inchiesta sulla commessa da 1,2 miliardi di euro di mascherine affidata dalla struttura del commissario a tre aziende cinesi per il tramite di diversi intermediari. Sebbene l'indagine non veda coinvolto il commissario né la sua squadra - il nome di Arcuri sarebbe stato sfruttato dal comitato d'affari - di certo fa emergere una gestione quanto meno discutibile. Scrivono i pm che la struttura commissariale non sarebbe apparsa interessata «a costituire un proprio rapporto con i fornitori cinesi né a validare un autonomo percorso organizzativo per certificazioni e trasporto preferendo affidarsi a freelance improvvisati desiderosi di speculare sull'epidemia». E a investire per produrre mascherine il commissario Arcuri aveva invitato le imprese italiane nel pieno della pandemia attraverso le possibilità offerte col bando Cura Italia.
Incentivi per realizzare impianti, iniziare a produrre e vendere al commissario, con la rassicurazione che avrebbe comprato. Ora molte di queste aziende che hanno centinaia di migliaia di mascherine ferme nei magazzini. E debiti da restituire.
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