Napoli - «Quando tenevo u' kalash in mano, mi sentivo u' padrone. Io ti uccido con quel coso in mano. E se vedi le guardie, spari addosso e scappi». Anche ora che il kalashnikov glielo hanno tolto di mano, Mariano A. il vizio del comando non l'ha perduto. Moro, un filo di barba, è già da tempo dietro le sbarre, a dispetto del suo sguardo ancora bambino. Michele Santoro ne ha fatto uno dei protagonisti del suo docufilm «Robinù», presentato al Festival di Venezia. Dando così voce e spazio ad uno dei capi della rivolta che qualche giorno fa ha portato alla devastazione di un'ala del carcere minorile di Airola.
La denuncia arriva dall'Unione dei sindacati di polizia penitenziaria. E suona come atto d'accusa al giornalista-presentatore-regista e, più in generale, alla galassia dei radical chic. Quelli che la polizia è strumento di repressione e i giovani se sbagliano è colpa della società. «Il giovanissimo intervistato nel docufilm è uno dei protagonisti della rivolta di Airola», taglia corto il segretario campano dell'Uspp, Ciro Auricchio. Poco scenico, forse, ma efficace. Come il ricordo dell'assalto patito dai suoi colleghi: agenti minacciati coi piedi dei tavoli e manici di scopa, altri feriti e una sezione dell'istituto devastata. Una ribellione che era scoppiata per la mancanza di sigarette allo spaccio, queste le motivazioni fornite dai rivoltosi. Una prova per accreditarsi con gli adulti e guadagnare gradi e galloni nelle gerarchie criminali dei gruppi di appartenenza, ritengono gli inquirenti.
Intanto, mentre i secondini si leccano le ferite, al Festival scorrono immagini e racconti del presunto baby killer cresciuto nel grembo di mamma camorra. Per i magistrati affiliato al clan di Ponticelli e per questo condannato ad una pena (non definitiva) a 16 anni di reclusione: avrebbe fatto parte della paranza di fuoco dei D'Amico, padroni di Napoli est. E nella guerra coi Vanella Grassi di Secondigliano avrebbe ammazzato un venticinquenne, Raffaele Canfora, provando poi a farne sparire il cadavere. «Nel trailer del docufilm - osserva Auricchio - il cosiddetto giovane detenuto in questione esalta il suo stato, manifestando disprezzo verso forze dell'ordine e istituzioni». Solo chiacchiere? «Questi soggetti vanificano i processi di riabilitazione degli altri ospiti delle strutture penali minorili», spiega il sindacalista napoletano, ponendo dubbi sull'opportunità di offrire anche la gloria del palcoscenico a chi «con le sue dichiarazioni evidenzia l'assenza di qualsiasi ravvedimento rispetto ai crimini commessi».
«Abbiamo inteso aprire una finestra sul ruolo del carcere e su quello che esso rappresenta per questi ragazzi», ribatte a distanza sul Fattoquotidiano.it Maddalena Oliva, con Micaela Farrocco e lo stesso Santoro sceneggiatrice di «Robinù». «Il problema - aggiunge - non è solo un problema di pena, di sicurezza, di numero di agenti penitenziari. Piuttosto è interrogarsi su come i ragazzi impieghino il loro tempo, sui corsi che fanno. Un'analisi necessaria per farlo diventare soprattutto una questione di recupero».
Nell'attesa d'essere recuperato, Mariano A. impartisce lezioni di vita criminale sul grande schermo: «Le guardie? Se sei in moto non riescono a fermarti e comunque si bloccano già quando vedono u' kalash. Lo sanno che gli spariamo addosso.
E pensano: per 1.500 euro devo rischiare la vita? E si fermano». Poi c'è magari chi, per onore e dignità e senso della legge e dello Stato smemorato, non si ferma. E finisce all'ospedale o al cimitero. Mai al Festival del cinema.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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