La contesa sul futuro della Bielorussia, la Repubblica post sovietica il cui popolo si è clamorosamente ribellato al suo dittatore Aleksandr Lukashenko, si sposta sul piano diplomatico. Ed è un confronto Occidente-Russia che richiama temi da guerra fredda, con Europa e Stati Uniti che si ergono come ai tempi della Primavera di Praga del 1968 e dell'89 che vide il crollo dell'impero sovietico a difensori dei diritti dei popoli dell'Europa orientale, mentre Mosca perfettamente indifferente a quei diritti - si schiera con il dittatore filorusso di turno a difesa dei propri interessi geopolitici.
Alla vigilia del vertice straordinario del Consiglio Europeo chiesto da Parigi per affrontare la questione bielorussa, sia il presidente francese Emmanuel Macron sia la cancelliera tedesca Angela Merkel hanno telefonato a Vladimir Putin. Entrambi gli hanno manifestato il loro rifiuto di accettare il risultato palesemente falsificato delle elezioni che la settimana scorsa hanno attribuito a Lukashenko l'80 per cento dei voti confermandolo alla presidenza per la sesta volta in 26 anni, ma anche (e soprattutto) le sconvolgenti violenze e torture inflitte agli oppositori del dittatore e perfino ai loro familiari, in perfetto stile staliniano. A entrambi il presidente russo ha replicato facendo intendere di voler sostenere Lukashenko e definendo inaccettabili quelle che ha definito «ingerenze negli affari interni della Bielorussia»: un concetto piuttosto stravagante, se si considera che è stato espresso dal capo di Stato di un Paese terzo e non dal diretto interessato.
Putin ha anche espresso ai suoi interlocutori europei la volontà di giungere in tempi rapidi a una «normalizzazione della situazione in Bielorussia», dove anche ieri per il decimo giorno consecutivo sono continuate le proteste, con una grande folla che si è radunata all'esterno della prigione dove sono rinchiusi ancora molti oppositori tra cui il principale ex candidato alla presidenza. Questo significa che Mosca non considera normali le proteste in corso nel vicino Paese, e che si aspetta che esse vengano fatte cessare in un modo o nell'altro anche, si suppone, con metodi violenti. Sono posizioni diametralmente opposte a quelle già espresse anche dal presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, che oggi a mezzogiorno nel corso del summit Ue che si terrà in videoconferenza - e durante il quale potrebbero essere decise sanzioni contro Minsk - ribadirà che il popolo bielorusso ha diritto ad autodeterminarsi attraverso elezioni oneste e a non subire né violenze poliziesche né indebite ingerenze russe. Posizioni identiche a quelle espresse la notte scorsa anche dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
È evidente che è proprio sulla natura del ruolo che Putin pretende di svolgere a Minsk che si scontrano le posizioni dei due fronti. Putin in realtà considera la Bielorussia un Paese sovrano solo nominalmente, parte di quel «vicino estero» ex sovietico che comprende l'Ucraina e i Paesi del Caucaso e dell'Asia Centrale dove pretende che la Russia abbia diritti speciali d'influenza, senza tenere in alcun conto la volontà dei rispettivi popoli. Pretende dunque che le proprie in Bielorussia non siano ingerenze, mentre quelle occidentali lo sarebbero. Un concetto che certamente sarà ribadito dal Cremlino dopo il vertice europeo di oggi.
Intanto Lukashenko minaccia di adire le vie legali contro i membri del comitato di transizione politica che dalla vicina Lituania insiste per vedersi riconosciuto il diritto di rappresentare il popolo bielorusso. È l'effetto del sostegno di Putin, che permette a un despota criminale di appellarsi in tutta serietà al rispetto della legge: la sua.
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