Dialoghi in libertà su una trattativa senza sbocco. Nel garage di Montecitorio si incontrano per caso Luigi Di Maio e una delle amazzoni di Forza Italia. L'approccio è formale perché il candidato grillino a Palazzo Chigi, con l'immancabile cravatta che non abbandona neppure quando dorme, è sempre compito e galante. «Ma perché ce l'hai tanto con il Presidente?», è la domanda a freddo della «pasionaria» del Cav. «Non ho nulla di personale - risponde Giggino - contro Berlusconi. Ma un governo con dentro lui e Forza Italia, non darebbe l'idea cambiamento. E poi hai visto come Sgarbi e Feltri mi trattano?!». L'amazzone che sfoggia un insolito approccio diplomatico, va avanti: «Ma il Cav è l'unico che ti può dare la possibilità di fare il premier. Ma tu devi riconoscere un ruolo a Berlusconi. Perché non lo incontri?». Di Maio ci pensa un po' e poi, più per cortesia che per altro, lascia la questione a metà: «Non lo so, ci penserò...». L'amazzone ci spera e racconta tutto subito a Berlusconi, il quale, conoscendo lo spirito degli uomini, ci crede poco: «Vedi cara, è Di Maio che deve lanciare un segnale». Di approcci del genere, in queste ore ce ne sono a decine. Un modo per reagire all'impotenza, per dare un senso ad una trattativa senza costrutto e senza fine. Ecco perché si assiste ad una lunga serie di salti mortali carpiati, o ad un tatticismo esasperato. Renato Brunetta che per carattere prende il toro per le corna, dà veste politica ad una singolare equazione: senza il Cav nel governo, di Maio non può aspirare alla premiership; con il Cav dentro il governo, Di Maio può fare il premier. «Va bene anche Di Maio premier - spiega - ma con Berlusconi agli Esteri, Salvini all'Interno, io all'Economia e Giorgetti allo Sviluppo economico. Il problema è che loro non possono porre dei veti personali, non possono calpestare la nostra dignità».
Ma l'ardita equazione per i grillini è accettabile? Difficile, se non impossibile. «Con Berlusconi - spiega Emilio Carelli, uno dei consiglieri del leader grillino con trascorsi in Mediaset - Di Maio non ha un problema personale, ma se lo accettasse, gli scapperebbe il movimento di mano. Faccio un esempio: Fico non era il suo candidato alla presidenza della Camera, ma ci ha detto: Se non lo faccio rischio che poi metà del gruppo parlamentare voti in modo differente». E anche l'ala più governativa del movimento, Davide Casaleggio, preferisce semmai la prima parte dell'equazione: un governo senza Di Maio premier, ma con Forza Italia fuori. Tant'è che lo scorso week end ad Ivrea, nel dietro le quinte del convegno dedicato al padre Gianroberto, gli uomini della Rousseau giocavano all'identikit del terzo uomo: da Franco Bernabè, a Franco Frattini.
Insomma, c'è aria di bruciato sulla candidatura di Di Maio dentro il movimento, tant'è che l'interessato sonda altri consiglieri: il compaesano ed ex presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino e, un giorno sì e un altro pure, l'ex ministro dc e ora presidente dell'Università Link, Vincenzo Scotti. Il problema, però, è che veto chiama veto. E il muro un altro muro. Ieri mattina Mariastella Gelmini e Marco Marin davanti ad un cappuccino davano un senso al nulla di fatto: «Per i grillini - convenivano - l'antiberlusconismo è la loro ragione sociale, ma per noi Berlusconi è la nostra ragione sociale». Né l'idea di una partecipazione marginale di Forza Italia o di un'astensione si fa strada dentro Forza Italia. Anzi.
«Noi - è perentorio il senatore Nazario Pagano, coordinatore in Abruzzo - o siamo dentro il governo o fuori». Un'inquietudine che è arrivata fino al vertice del partito, montata dai tanti che aspirano a fare il ministro o il sottosegretario. Tant'è che il fido Gianni Letta è stato ancora una volta chiaro con il Cav: «Se non sarai tu a scegliere la delegazione di Forza Italia al governo, molti di questi si rivolgeranno a Salvini». Un'atmosfera che ha contagiato anche Berlusconi. Tant'è che lunedì per la prima volta il Cav ha usato una parola verso cui nutre da sempre una certa diffidenza: «Se ci costringono, andremo all'opposizione». È proprio questa difficoltà a mettere in piedi una trattativa, il fallimento della diplomazia segreta, che ha spinto Matteo Salvini, a cambiare, a quanto pare, spartito. Infatti, il muro contro muro rischia di crollare su di lui: la prossima settimana, di fronte ad un nulla di fatto, il leader della Lega potrebbe ricevere il pre-incarico di formare un governo. Certo potrebbe rifiutare, ma non senza conseguenze: dopo aver criticato per cinque anni la politica economica e sull'immigrazione dei governi Pd, può Salvini mandare Gentiloni a rappresentare l'Italia al Consiglio Europeo del 28 giugno, che prenderà decisioni importanti proprio su questi argomenti, a cominciare dalla revisione del Trattato di Dublino?
Così il leader della Lega, sta pensando di accelerare. In primo luogo punta a chiudere un accordo con i 5stelle, stringendo i tempi. Magari rischiando lo strappo con il Cav. «Un'operazione del genere nei fatti - osserva un Gianni Letta preoccupato - equivarrebbe ad un tradimento». Non per nulla ieri proprio Di Maio, parlando con i suoi, ha messo la parola fine alle trattative con il Pd: «Ormai c'è solo Salvini». Se l'intesa con i grillini non ci fosse, ma solo in quel caso, allora il leader della Lega punterebbe a rastrellare voti in Parlamento, cioè l'ipotesi più gradita al Cav e alla Meloni. Il suo obiettivo, comunque è accelerare i giochi e di quest'operazione potrebbe essere lui il protagonista, o magari il fido Giorgetti, che non per nulla, all'ultimo momento, ha lasciato la presidenza della Commissione speciale di Montecitorio ad un altro leghista, Molteni. La nuova strategia è un modo per fare pressione sui grillini, ma, ancora di più, verso il Cav. E già Salvini deve sbrigarsi: le nubi sullo scenario internazionale non promettono nulla di buono. «O si dà una mossa - insinua Guido Crosetto, uno dei consiglieri di Giorgia Meloni - o gli americani sbarreranno la strada a Palazzo Chigi ad un amico di Putin. Per loro è preferibile avere un governo grillini, Leu e Pd. Certo Renzi si opporrà, ma loro hanno i mezzi per dirgli: A Mattè che te serve?». Insomma, Salvini è costretto a smuovere le acque. Subito. Se non riuscirà nell'impresa, la tegola finirà in testa a Di Maio. E in quel caso anche lui sarà «responsabilizzato» a trovare un accordo: non si può dire per un mese siamo il primo partito; e poi dimostrare che non si è capaci di dare un governo al Paese.
Sarebbe la rappresentazione plastica che il voto ai 5stelle è un «voto inutile». Per cui la trattativa è in apparenza senza sbocco, ma più i giorni passano e più il tempo porta consiglio.
«È come nel suk - è l'affermazione laconica di qualche giorno fa di Stefano Lucidi, senatore che ha capeggiato la lista grillina in Umbria - lì non c'è un prezzo stabilito, per nulla. Quando compri un tappeto, tra un thé e un caffè turco, prima ti sparano una cifra, poi ti accordi alla metà».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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