Londra Al di fuori della bolla di Westminster, dove a volte le discussioni e le scelte sembrano essere autorefenziali, c'è un mondo reale. A chi tra Downing Street e le stanze dei Comuni se ne fosse scordato, lo ha ricordato ieri l'annuncio di Sony che trasferirà il proprio quartier generale europeo da Londra ad Amsterdam.
Dal vertice di Davos in corso in questi giorni, il ministro inglese al commercio internazionale, Liam Fox, ha cercato di minimizzare, affermando che la Gran Bretagna è rimasta «aperta agli affari, ed è una destinazione attraente per gli investimenti diretti esteri». Vero. La storia economica e politica del Paese lo rendono ancora un luogo tra i più attraenti per gli investitori esteri. Secondo i dati dell'Ufficio Nazionale di Statistica sono ai livelli più alti mai registrati, arrivando a 149miliardi di sterline nel 2017. Ma l'anno scorso l'afflusso di capitali, pur positivo, si è dimostrato più debole. E la raffica di annunci delle ultime settimane di imprese estere che hanno trasferito i propri uffici, o lo stanno pensando di fare, indica che forse la pazienza degli imprenditori è al termine.
Il gigante giapponese Sony non è infatti solo nella decisione di lasciare Londra. Prima di lui anche la rivale Panasonic, già a fine estate 2018, aveva compiuto la stessa mossa. Via dal Regno Unito per accasarsi nell'Unione europea. La banca d'affari Nomura, assieme ad altri istituti finanziari nipponici, ha annunciato la decisione di trasferire la maggior parte delle attività oltremanica. Così come la società di trasporto navale P&O che effettua, tra le altre cose, servizi di collegamento attraverso il Canale e sposterà il suo quartier generale ad Amsterdam, con la sua flotta che batterà bandiera cipriota. Stessa decisione anche per il tycoon pro Brexit James Dyson, re degli elettrodomestici, che tra molte polemiche ha annunciato di voler spostare la sede a Singapore. Aveva dichiarato che l'uscita dall'Ue avrebbe portato «fantastiche opportunità» al di fuori dell'Unione, «l'area del mondo che cresce più lentamente». Ora però bisogna far tornare i conti. Altro business ma stessa decisione da parte di altre due multinazionali giapponesi, Hitachi e Toshiba, che hanno cancellato i loro piani di investimento nel nucleare in Galles e in Cumbria. Non casualmente, vista la mole di interessi coinvolti, il premier giapponese Shinzo Abe visitò l'Olanda, tra le mete preferite per i ricollocamenti delle società del Sol Levante, e si incontrò poi con Theresa May con cui parlò dei rischi di no deal e delle prospettive economiche del Regno. Era inizio gennaio, quando la bozza di accordo tra May e l'Ue non era ancora stata discussa e affondata a Westminster ma il cui destino infausto già si intuiva.
Per quanto i brexiteers si affannino a ripetere i benefici ipotetici dell'uscita sembra che la pazienza del business sia agli sgoccioli. È vero, la vittoria del Leave al referendum di due anni e mezzo fa non ha portato alla catastrofe economica che troppe Cassandre avevano predetto. Il tasso di crescita ha rallentato, ma è rimasto positivo, la disoccupazione è ai minimi da oltre 40 anni, al 4%, i salari crescono in termini reali. Il presente è ancora roseo, ma potrebbe non esserlo affatto il futuro. Le imprese hanno aspettato per vedere quello che il governo sarebbe riuscito a portare a casa e a oggi c'è solo confusione. Ammoniva ieri la Cbi, la Confindustria inglese, che l'ottimismo delle imprese inglesi negli ultimi tre mesi si è gravemente deteriorato, complici le difficoltà globali e la Brexit, con le previsioni di esportazioni per il prossimo anno ai livelli più bassi dal gennaio 2009, piena crisi subprime. «Un'uscita senza accordo a marzo deve essere esclusa immediatamente», ha detto Carolyn Fairbairn, direttrice generale della Cbi.
«È l'unico modo per ripristinare la fiducia delle imprese». È quello su cui sta scommettendo in queste ore il mercato dei cambi, con la sterlina in rafforzamento da giorni. Il credito che le imprese hanno dato alla politica è terminato, è ora tempo di decisioni.
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