La capriola del Veltroni cine-critico: ora elogia il Montagnani disprezzato

La sinistra "scopre" che accettò ruoli disimpegnati per bisogno

La capriola del Veltroni cine-critico: ora elogia il Montagnani disprezzato

Come giravolta è perfetta. Ieri Walter Veltroni sul Corriere della Sera ha dedicato due pagine a Renzo Montagnani, attore grande e sfortunato di teatro e cinema, protagonista anche in tv, ricordato dal grande pubblico per le commedie sexy con Edvige Fenech, Barbara Bouchet e Nadia Cassini o per capolavori come Amici miei di Monicelli, e dagli storici per le magistrali interpretazioni sul palco come in I sogni muoiono all'alba, di Indro Montanelli (che lo farà esordire al cinema due anni dopo nel film omonimo di cui era regista). Si dirà: un giusto ricordo per un attore memorabile, bene, bravo, bis.

Però c'è un però. A massacrare la quasi totalità dei film nei quali recitava Montagnani era allora la critica schierata, quella che «segue dibattito», quella che se un'opera non era impegnata non valeva una beneamata. La critica della quale Walter Veltroni, entrato nel 1970 nella Fgci, organizzazione giovanile del Partito Comunista Italiano, era uno degli incontestabili motori ideologici. Lo riconosce nell'articolo lo stesso Veltroni parlando di un cinema che «era impegnato o non era». Si dirà: onesta ammissione. E invece no. In nessuna parte delle due paginate si ammette o anche si sottintende che «io c'ero», «ero parte di quel sistema che ha stroncato, massacrato, boicottato film e carriere solo perché non erano politicamente allineate o accettate». Il lungo e condivisibile ritratto di Renzo Montagnani, fuoriclasse nato per caso ad Alessandria nel 1930 e morto disfatto da un cancro nel 1997, sembra scritto da un estraneo a quella brutale censura ideologica. Per capirci quale fosse il clima l'attrice Paola Pitagora, come ricorda a Veltroni, ammette che, quando recitarono in Dialogo di Natalia Ginzburg, lei e Montagnani «all'inizio non ci sopportavamo, forse per i miei pregiudizi generati dai film che faceva». Pregiudizi tra colleghi, il massimo del minimo.

A un certo punto, nonostante i suoi film spesso fossero campioni al botteghino, Montagnani arrivò a giustificarsi: «I film grossolani sono una scelta remunerativa, ma io uso definirmi migliore dei miei film». Come a dire, scusate se recito bene e sono colto e competente ma faccio film che non piacciono alla critica schierata. Incredibile, vero? Eppure in quegli anni andava proprio così. «C'è una verità nascosta», scrive ora sul Corriere l'ex deputato di Pci, Pds, Pd ed ex direttore de l'Unità: «Doveva pagare le spese di cura per suo figlio malato». Si dirà: finalmente la verità viene a galla. Ennò.

In realtà Montagnani parlò delle sofferenze del figlio già in una intervista a Luciano Salce su Raiuno nel 1980, non proprio in un luogo segreto: «Purtroppo ho delle spese pazzesche familiari, perché se in Italia esistessero delle strutture valide per curare dei bambini malati non avrei bisogno di fare tutti questi film».

Mentre lui recitava per pagare le cure al figlio, la critica lo massacrava con verdetti sconfitti dal tempo. Ora lo riconosce anche l'altro Veltroni, l'ologramma giornalistico di quello che allora applaudiva quei fischi e quei buu.

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