«Israele ha il diritto di difendersi, ma il modo in cui lo fa è importante». È questa la posizione del segretario di Stato americano, Antony Blinken. Che venerdì sera - dopo l'attacco israeliano a Beirut che ha colpito mortalmente il leader di Hezbollah, Haasn Nasrallah - ha usato parole di prudenza. Perché, ha detto a New York a margine dell'Assemblea generale dell'Onu, «le scelte che tutte le parti faranno nei prossimi giorni determineranno il percorso di questa regione, con profonde conseguenze per il suo popolo». Non solo oggi, ma «per gli anni a venire».
Un approccio cauto, perché non solo gli Stati Uniti ma tutto l'occidente guarda con preoccupazione all'escalation in corso in Medio Oriente, con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che è ormai sulla linea della «guerra totale». E che nel suo intervento alle Nazioni Unite non ha esitato a definire l'Onu una «palude antisemita». E pure a Palazzo Chigi si segue un orientamento prudenziale, nel difficile equilibrio tra la legittima reazione di Israele all'attacco dello scorso 7 ottobre (che ha causato circa 1.200 morti israeliani tra militari e civili) e una reazione che sia adeguata ma non smisurata. Non a caso, la nota diffusa ieri dal governo italiano non entra troppo nel merito. E si limita a confermare «la posizione che l'Italia ha tenuto finora», sollecitando «ogni sforzo diplomatico al fine di riavviare canali di dialogo tra le parti in conflitto».
Cautela, insomma. E non solo perché c'è un'opinione pubblica che in buona parte ritiene la reazione di Tel Aviv non congrua, ma anche perché l'escalation in corso rischia di portare a conseguenze imprevedibili, favorite dalla paralisi geo-politica degli Stati Uniti che sono ormai congelati fino alle presidenziali del prossimo 5 novembre. Giorgia Meloni ne è ben consapevole. E - non ne parole, ma nei fatti - si attesta esattamente sulla linea Blinken. Una scelta di prudenza, nonostante l'importanza che nell'ultimo decennio ha avuto il rapporto tra Fratelli d'Italia e la comunità ebraica italiana (e di Roma in particolare).
Ieri Meloni è stata in contatto permanente con il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, ha sentito il titolare della Difesa Guido Crosetto, e si è interfacciata con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, autorità delegata alla sicurezza della Repubblica.
La nota di Palazzo Chigi che fa seguito ai colloqui in questione si concentra soprattutto sulla sorte degli italiani presenti in Libano, spiegando che «la situazione dei nostri connazionali e civili sul territorio libanese non mostra profili diversi da quelli dei giorni scorsi». Un'indicazione, insomma, di non particolare allarme. Che però non pare coincidere con la linea della Farnesina, visto che Tajani invita «tutti i cittadini italiani a lasciare quanto prima il Libano». Lo fa da Colonia, in Germania, dove è in visita di Stato al seguito del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Che - dice il ministro degli Esteri - è costantemente «informato sugli sviluppi della crisi in Medio Oriente e sull'azione del governo per proteggere i nostri militari».
Non pochi. In Libano, infatti, sono attivi circa 1.200 militari italiani, impegnati nella cornice della missione delle Nazioni Unite (Unifil) e della missione bilaterale avviata dall'Italia (Mibil). Il Libano, peraltro, è il teatro operativo con il numero maggiore di militari italiani impegnati in una missione internazionale.
Che, dice Tajani, «abbiamo anche cercato di tutelare nel modo migliore possibile» chiedendo «rassicurazioni al governo di Israele» che «ci ha fornito garanzie per quanto riguarda i soldati italiani che sono al confine fra Hezbollah e Israele».
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