«Charlie Hebdo» vittima due volte «Niente redazione troppo rischioso»

Alcuni, tra cui il caporedattore Gérard Biard, mentre Parigi era messa a ferro e fuoco dai terroristi, erano a un passo dalla sala concerti Bataclan, nei locali di Libération dove era in corso una festa. La scorta li ha messi immediatamente in sicurezza. Massima allerta, anche per chi, come loro, vive già sotto protezione 24 ore su 24. Poi sabato, il giorno dopo la strage, il consiglio delle forze dell'ordine: meglio non presentarsi in redazione, nella nuova sede nel sud di Parigi, un bunker di cui non si conosce l'indirizzo ma la cui sorveglianza costa 500mila euro l'anno. Il 13 novembre dei giornalisti e dei disegnatori di Charlie Hebdo è stato un incubo nell'incubo. La squadra del settimanale preso di mira dai jihadisti il 7 gennaio, il gruppo che ha assistito alla decimazione della propria redazione a colpi di kalashnikov in quello che fino a qualche giorno fa sembrava il giorno più nero della Repubblica, ha scoperto il 13 novembre che l'orrore ha superato l'orrore. «Pensavamo di aver toccato il fondo - racconta a Le Monde Zineb El Rhazoui - E invece...». Francese di origini marocchine, è lei l'esperta e feroce critica dell'islam fra i pochi del settimanale satirico a parlare dopo l'ultima strage. Era a casa quando i sette attentati simultanei si consumavano nella capitale francese: «Ho avuto una reazione di rigetto totale, di fuga, quasi un rifiuto di voler sentirne parlare».Sabato è arrivato il comunicato del giornale, la vicinanza ai familiari delle vittime e le parole chiare, come in stile Charlie: «Il giornale condanna una volta di più questa violenza terrorista al servizio dell'ideologia totalitaria islamista che non ha altro scopo se non quello di distruggere i valori della democrazia e della Repubblica». Ora si prepara il numero del 18 novembre, che era quasi già pronto ma è tutto da rifare.

Qualcuno ha ripreso in mano la matita, qualcun altro, come Patrick Pelloux, che ha già annunciato l'addio al giornale, si è rimesso il camice da medico e la notte della strage si è fiondato in corsia: «Una carneficina di guerra - racconta - Hanno usato proiettili di 16,5 millimetri, con forte velocità. Come al tiro al piccione».

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