Da un lato la Germania con gli e-fuel e dall'altro l'Italia con i biocarburanti. La sfida è ancora aperta, ma quali sono le differenze? Gli e-fuel, nome completo electrofuel, sono carburanti sintetici a impatto zero prodotti combinando chimicamente idrogeno e anidride carbonica. Vengono ottenuti mediante un processo di elettrolisi dell'acqua - da realizzare usando esclusivamente energia proveniente da fonti rinnovabili - allo scopo di produrre idrogeno da miscelare poi con la CO2 nell'aria. In questo modo si arriva ad avere un combustibile liquido «puro» pronto per essere bruciato nei motori a scoppio. Secondo alcuni studi, gli e-fuels consentirebbero anche di eliminare le emissioni di particolato, un inquinante che avvelena l'aria dei grandi centri urbani. Ma la produzione dei carburanti sintetici al momento risulta essere ancora non solo molto costosa e limitata, ma anche impattante sul fabbisogno idrico. Per ottenere un litro di questo carburante sono necessari circa due litri di acqua. E per ora il suo costo finale, secondo alcuni studi tecnici, arriverebbe a superare i 10 euro. Un ostacolo che potrebbe però essere risolto, secondo i sostenitori di questa tecnologia, grazie ad economie di scala. Quali sarebbero invece i vantaggi degli e-fuel? Sono facilmente inseribili sul mercato e con tempistiche rapide in quanto già compatibili con le infrastrutture esistenti (raffinerie, autocisterne e stazioni di servizio). Renderebbero poi subito neutrali dal punto di vista delle emissioni di CO2 le auto con motori a combustione, emettendo quantità di ossidi di azoto molto inferiori rispetto ai carburanti convenzionali. Si stima inoltre che già nel 2026 potrebbero alimentare le vetture di Formula Uno.
Dall'altro lato, invece, ci sono i biocarburanti che vengono prodotti dalle biomasse, cioè dagli scarti di materia organica generata dalle piante e dagli animali. Scarti provenienti dall'industria agroalimentare (mais, colza, girasole o soia), dall'attività agricola e forestale (ramaglie verdi recuperate o residui di legna) e rifiuti organici delle città.
Ci sono due principali tipi di biocarburanti. Il bioetanolo, che si ottiene con un processo di fermentazione delle biomasse in cui i microrganismi (batteri) metabolizzano gli zuccheri vegetali e producono etanolo. Questo particolare carburante viene già utilizzato in basse percentuali (5-10%) nell'attuale benzina oggi in commercio. C'è poi il biodiesel, che è un carburante prodotto grazie al processo chimico della transesterificazione. In parole semplici, il grasso animale, il grasso da cucina riciclato o l'olio vegetale vengono fatti reagire con un alcol come il metanolo alla presenza di un catalizzatore che ne accelera l'azione. Il risultato è un biodiesel grezzo che poi viene nuovamente raffinato per raggiungere il prodotto finale.
La differenza con i biocarburanti tradizionali è che non sottraggono terreno e risorse all'agricoltura, come paglia, gusci e rifiuti organici della raccolta differenziata. Il vantaggio del biodiesel risiede nel fatto che sarebbe subito a disposizione, non richiederebbe grandi investimenti, è compatibile con i motori convenzionali, non ne altera le prestazioni e ci si potrebbe avvalere subito della rete di distribuzione dei carburanti tradizionali. Inoltre, anche i costi sarebbero molto più bassi. Basti pensare che Eni, molto attiva sul fronte dei biocarburanti, ha lanciato HVO, diesel prodotto con 100% di materie prime rinnovabili e di scarto con un costo di 1,910 euro al litro. Gli svantaggi sarebbero invece dettati dal fatto che il biodiesel non ridurrebbe del tutto le emissioni di CO2 e i costi di produzione non sarebbero così contenuti.
Infine, secondo Transport & Environment (T&E), organizzazione indipendente che promuove politiche di trasporto a zero emissioni, oggi l'uso di biocarburanti avanzati consentirebbe di alimentare appena il 5% del parco circolante italiano, quota che potrebbe salire al massimo al 20% (6,9 milioni) nel 2030.
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