Accusa e difesa sono pari davanti al giudice, ma a dirla tutta l'accusa è un po' più pari. La conclusione paradossale, e uno schiaffo in più al principio della parità delle parti processuali, arriva con la sentenza 16458 della terza sezione della Corte di Cassazione penale che ha respinto il ricorso di una signora barese condannata per aver demolito un rudere in zona con vincolo paesaggistico ricostruendo poi un nuovo fabbricato. Solo che la donna, nel ricorso, lamentava come la corte d'Appello che l'ha condannata avesse ignorato la sua consulenza di parte (che definiva l'intervento come ristrutturazione) aderendo invece in pieno alla perizia disposta dal pm. Ed eccoci al punto. Perché la Cassazione, nella sentenza, rimarca proprio come non sia censurabile la sentenza di condanna oggetto del ricorso per essersi allineata alle conclusioni del perito del pubblico ministero, e mette nero su bianco che «pur costituendo anch'esse il prodotto di un'indagine di parte, devono ritenersi assistite da una sostanziale priorità rispetto a quelle tratte dal consulente tecnico della difesa».
Chiaro? Il consulente tecnico incaricato dal pm gode dunque di una maggiore attendibilità, stando alla pronuncia della Cassazione che ha dichiarato inammissibile il ricorso. E ha affermato un precedente inquietante che fa a cazzotti, appunto, con il principio della parità delle parti. La sentenza, peraltro, insiste sul punto, definendo più avanti gli accertamenti del consulente del pm portatori di «una valenza probatoria non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti del giudizio». Il tutto proprio perché il pm, argomenta la Terza sezione della Cassazione, sarebbe super partes, avendo «per proprio obiettivo quello della ricerca della verità», un obiettivo discutibile, nella pratica che secondo la Suprema corte è «concretamente raggiungibile attraverso una indagine completa in fatto e corredata da indicazioni tecnico scientifiche espressive di competenza e imparzialità», e al quale prosegue la sentenza, dovrebbe allinearsi anche il lavoro del consulente nominato dal pm, «dovendosi necessariamente ritenere che () operi in sintonia con tali indicazioni». Insomma, i giudici salentini che hanno condannato la donna, per la Cassazione, bene hanno fatto a fidarsi della perizia del consulente del pm senza verificare gli abusi denunciati con un ulteriore accertamento peritale, «del tutto inutile per l'accertamento dei fatti e per la speditezza del processo».
Peccato che il pm «super partes» dovrebbe in realtà rimanere una parte del processo, e che l'obbligo di acquisire elementi anche a favore dell'indagato da parte del pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari è, nella pratica, piuttosto trascurata. Tanto che questa pronuncia apre una pericolosa breccia nel già fragile principio che vorrebbe il contraddittorio tra le parti nel processo svolgersi in condizioni di parità.
Mentre si parla tanto di riforme nel campo della giustizia, sarebbe cosa buona che i giudici della Suprema corte non certificassero come dato assodato - oltre che condivisibile, a leggere la sentenza - lo squilibrio nel processo tra accusa e difesa.
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