Siamo sempre lì, anzi qui. Siamo all'ennesima inchiesta sul calcioscommesse. Siamo arrivati a metà maggio, alla fine di un altro campionato e con un timing perfetto da Catanzaro ecco Dirty Soccer, calcio sporco, un altro pezzo di pallone marcio, marcissimo, a giudicare dalle intercettazioni divulgate all'istante. L'inchiesta ha dinamiche e contenuti identici a quelle che abbiamo visto nelle passate edizioni, con la diminutio che questa parla di partite di Lega Pro (la serie C) e di dilettanti.
Leggiamo, ci indigniamo. E poi? Poi c'è da fare qualche riflessione. Perché lo Stato non può perseguire i calciatori brutti, sporchi e cattivi che si vendono le partite e poi però contemporaneamente lucrare sul quel mare gigantesco di denaro che le scommesse generano. Perché il calcio non può condannare quei giocatori e al tempo stesso non vedere che in Lega pro e nei dilettanti, ragazzi di vent'anni non prendono lo stipendio promesso per 7-8 mesi. Non parliamo di milionari, ma di gente che guadagna 1.500 euro al mese. Tutto ciò non giustifica combine e scommesse, è ovvio. Ma non si può pensare di sconfiggere la vergogna delle scommesse con delle inchieste giudiziarie. Anche perché le stesse inchieste spesso sono monche: partono con la fanfara, poi non riescono a dimostrare trucchi e inganni. Al lupo, al lupo, con un unico risultato certo: accusare lo sport e il calcio trova condivisione collettiva, perché i giocatori sono riusciti a scatenare un odio sociale contro di loro che fa spavento.
Della chiusura dell'indagine, della verità, importa davvero molto poco a tutti. Il che porta due conseguenze: i giocatori vengono condannati dalla giustizia sportiva (dove basta il solo sospetto per la condanna) e poi spesso prosciolti da quella penale.
Nel frattempo gli appassionati, i tifosi si trovano in una doppia spiacevole posizione: sentirsi truffati dai giocatori presunti venduti e traditi nelle loro certezze, al punto che ogni partita di fine campionato viene vissuta con il sospetto di una combine . Vera o falsa che sia.
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