Dialogare con la Cina è indispensabile per l'Italia e l'Europa. Il suo mercato da 1,4 miliardi di persone, del resto, è uno sbocco importante per le economie occidentali. Basti pensare che, secondo le stime dell'agenzia Ice, nel 2023 Pechino ha importato 19 miliardi di euro di merci italiane. Allo stesso modo, il Paese guidato da Xi Jinping ha bisogno di mantenere solide relazioni commerciali essendo il più grande Paese esportatore del mondo. Ne ha tanto più bisogno in questo momento, nel bel mezzo di una profonda crisi del settore immobiliare. Una macchina che negli anni è stata foraggiata da maxi-stanziamenti governativi e speculazioni edilizie spericolate che ha portato il comparto del mattone a pesare per quasi un terzo del Pil del Dragone. L'arrivo della pandemia, tuttavia, ha fatto emergere tutti i limiti di questo disinvolto approccio. Nelle scorse settimane un altro grande sviluppatore del mattone, Shimao, è finito in default e ora è a un passo dalla liquidazione così come il colosso Country Garden. Crolli che si aggiungono a quello ancor più famoso di Evergrande e al fallimento dei due terzi degli sviluppatori immobiliari.
Le magagne del settore, però, sono troppo grandi per non produrre conseguenze gravi. Il boom economico che ha visto crescere l'economia a tassi molto sostenuti ha evidentemente convinto gli sviluppatori a prendersi rischi eccessivi vendendo appartamenti non ancora completi per finanziare nuove costruzioni. Poi però è arrivata la pandemia, con la decisione del governo di Pechino di varare il lockdown più lungo e duro al mondo che ha paralizzato la crescita e il mercato, con le aziende ritrovatesi in difficoltà a ripagare i debiti. Una bomba che a cascata sta ricadendo sulle province cinesi, che devono alla vendita dei terreni edificabili buona parte dei loro introiti. Amministrazioni locali che, peraltro, hanno in capo una quantità monstre di debito che lo Stato cinese non conteggia come proprio ma che in realtà è tale: il Fondo monetario internazionale, nel 2022, lo stimava in 9.200 miliardi di dollari, quasi cinque volte il Pil dell'Italia, una cifra però destinata a raddoppiare entro il 2027. Non tutte le province sono in difficoltà, ma certo il quadro preoccupa il governo. Un vortice di problemi che inevitabilmente contagia il settore finanziario. Del resto, i debiti degli sviluppatori finiscono in pancia ai fondi d'investimento, che incontrano problemi a pagare i clienti. Il crollo del gigante Zhongzhi è un esempio di quanto il settore immobiliare sia intrecciato con quello finanziario.
La Cina ha costruito un'importante leadership tecnologica, ed è la seconda potenza economica mondiale. Ha in mano materie prime critiche per la transizione energetica e tanti altri punti di forza. Ma deve affrontare e risolvere la grana immobiliare se vuole veramente arrivare a superare gli Stati Uniti. La crescita del Pil, che ha sempre nascosto i problemi, l'anno scorso è stata solo del 5,2%, al livello più basso da trent'anni. E per quest'anno il partito comunista prevede un avanzamento di circa il 5%, ma la locomotiva frena e il Fondo monetario internazionale prevede che crescerà solo del 3,5% entro il 2028. Basterà per continuare a spazzare la polvere sotto al tappeto? Difficile, anche perché il Paese ha altre importanti sfide da affrontare come il poderoso declino demografico in atto nonostante l'abbandono della politica del figlio unico. Il tasso di natalità è inchiodato a circa 1,3 figli per donna e l'anno scorso la popolazione è diminuita di oltre 2 milioni di abitanti (per fare un confronto, nel comune di Milano vivono 1,3 milioni di persone). L'invecchiamento della popolazione, in prospettiva, aumenterà le spese sanitarie e farà perdere smalto ai consumi, rendendo ancora più rilevante il problema del debito. Possibile, quindi, che la Cina inizi a declinare prima ancora di diventare un Paese realmente prospero? I rischi ci sono, anche perché il Pil pro capite di un cinese, a oggi, è ancora poco più di un terzo di quello di un italiano.
E poi c'è un problema, non trascurabile, che riguarda la non prevedibilità di un regime dittatoriale. Le tensioni geopolitiche, il sostegno più o meno velato alla Russia di Vladimir Putin, le esercitazioni militari intorno all'isola di Taiwan e l'interventismo statale nell'economia hanno messo più che in guardia gli investitori. Basti pensare che, alla fine del 2023, gli investimenti diretti esteri di imprese straniere in Cina sono saliti di appena 33 miliardi, al livello più basso dal 1993. Soffre anche la Borsa, l'indice Shanghai Composite è ancora sotto di oltre il 15% dal picco raggiunto nel 2021 e non ha di certo corso come i più grandi listini mondiali nell'ultimo anno e mezzo. Da un po' di tempo a questa parte, del resto, in Cina sono successe diverse cose inquietanti nell'ottica di un investitore. La più emblematica è la sospensione, datata 2020, della quotazione in Borsa da record della Ant Group di Jack Ma, imprenditore visionario fondatore di Alibaba sparito misteriosamente dalla circolazione per mesi dopo aver criticato il regime. Poi sono arrivate le strette regolatorie su giganti tech da Tencent a Didi Group fino alla stessa Alibaba. Vicende che rendono l'andamento di un'azienda poco prevedibile poiché, da un momento all'altro, questa potrebbe essere colpita nel business da un diktat governativo: tutte cose che non piacciono ai mercati dei capitali, che invece richiedono stabilità e regole certe.
C'è però la speranza che qualcosa cambi: al Forum per lo sviluppo della Cina, il premier cinese Li Qiang (braccio destro di Xi) ha promesso a una platea di aziende straniere di abbattere le barriere ancora oggi presenti a chi vuole investire dall'estero. Quella di essere un'economia troppo chiusa e protezionista, infatti, è l'obiezione principale che da Occidente si muove alla Cina. Secondo la direttrice del Fondo monetario internazionale, Kristalina Georgieva, Pechino oggi «si trova di fronte a un bivio»: può continuare a «fare affidamento sulle politiche che hanno funzionato in passato, oppure reinventarsi per una nuova era di crescita di alta qualità». Secondo l'economista bulgara, la Cina dovrebbe maggiormente affidarsi a «correzioni basate sul mercato» nel settore immobiliare, cruciale ma troppo indebitato. Oltre ad aumentare «la capacità di spesa di individui e famiglie rafforzando il suo sistema pensionistico». L'invito, inoltre, è stato a «rafforzare l'ambiente imprenditoriale e garantire condizioni di parità tra imprese private e statali».
Secondo i calcoli di Georgieva, con un «pacchetto completo di riforme a favore del mercato la Cina potrebbe aggiungere il 20% o 3,5 trilioni di dollari alla sua economia nei prossimi 15 anni». Insomma, in sintesi, la Cina dovrà diventare un po' meno regime e un po' più liberale, il che la farebbe diventare un'enorme opportunità spazzando via le preoccupazioni di chi la vede una minaccia.
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