Chi assolvere e chi condannare, quattro pesi e quattro misure

Pare che un noto giudice, che ha sul suo tavolo fascicoli delicati, nelle scorse ore abbia divulgato a una lunga lista di amici una vignetta satirica in cui si inneggia a Iolanda Apostolico

Chi assolvere e chi condannare, quattro pesi e quattro misure
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Pare che un noto giudice, che ha sul suo tavolo fascicoli delicati, nelle scorse ore abbia divulgato a una lunga lista di amici una vignetta satirica in cui si inneggia a Iolanda Apostolico, il magistrato siciliano divenuta famosa prima per la sua sentenza pro-migranti e poi per il video della rumorosa manifestazione, sempre pro-migranti, che la vide protagonista pochi anni fa. Se è vero, si tratta di una piccola conferma di quanto ormai da decenni è sotto gli occhi di tutti, ma di cui forse solo ora l'opinione pubblica si sta rendendo conto appieno: la tendenza incontenibile di parte della magistratura a sentirsi un corpo a parte, con meno doveri e più diritti dei comuni cittadini. La missione salvifica cui tutto è sacrificabile, a partire dai diritti degli imputati (si guardi quanto sta emergendo a Brescia sul processo Eni) è resa possibile - in questa visione un po' scalena - solo dalla mancanza di ogni controllo superiore, dalla libertà totale di scegliere cosa indagare e cosa affossare e dalla garanzia di impunità quasi totale anche davanti a colpe macroscopiche. È fin troppo facile fare degli esempi anche recenti di questa disparità di trattamento giuridico e mediatico. Un procuratore aggiunto della Repubblica viene accusato di avere occultato prove a favore degli imputati, indagato, rinviato a giudizio, e resta al suo posto: fa nello stesso tempo l'accusato e l'accusatore, a capo dello stesso pool dove avrebbe commesso i reati; due pubblici ministeri di Trani vengono condannati con sentenza definitiva dalla Cassazione per violenza privata ai danni di una serie di testimoni, e come unica punizione il Consiglio superiore della magistratura li sposta di sede, trasformandoli in giudici. Altra faccia della medaglia: un ministro della Repubblica, Daniela Santanchè, viene indagata per fatti estranei al suo mandato, e prima ancora che la Procura decida se merita o no di essere mandata sotto processo viene fatta oggetto di lazzi, ludibrio, richiesta di dimissioni e infine di una mozione di sfiducia. La presunzione di innocenza vale più per i magistrati già condannati che per il resto del mondo? Altrettanto si potrebbe dire per un altro diritto rilevante, quello alla riservatezza. Lo stesso ministro viene legittimamente fatto oggetto di trasmissioni televisive, in cui si dà atto dei suoi problemi giudiziari: ma si mandano le telecamere a casa sua (Piazzapulita di Formigli), con indirizzo e numero civico: «Fare vedere la casa di residenza, indicando via e città dove si trovano, a cosa serve, che finalità ha?», twitta polemico il ministro Guido Crosetto. Diritto di cronaca, si ribatte. Che però non vale quando c'è di mezzo un magistrato: vietato citare il colore dei suoi calzini, proibito dire a quali manifestazioni partecipa: diventa subito dossieraggio, macchina del fango, killeraggio mediatico.

La casta rivendica un'aura di intangibilità, come se si trattasse di esseri senza nomi, senza volto, astratti; peccato però che il nome ce l'abbiano, lo usino, firmino appelli, scendano in piazza, scioperino, rilascino interviste, scrivano libri, si presentino alle elezioni, vengano trombati, si ripiazzino in qualche modo, tornino a emettere sentenze anche se ormai hanno ammesso di avere un credo politico. Perché (quando gli fa comodo) sono cittadini come gli altri.

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