Taci, il pm (non) ti ascolta. Il Fatto quotidiano di ieri lancia l'allarme sui giornalisti che l'Italia vorrebbe intercettabili con i famigerati trojan, in nome della «salvaguardia nazionale» perché ce lo chiede l'Europa. È già successo (vedi gli scandali Predator e Pegasus, «software spia sui cellulari di giornalisti in Grecia, Francia, Spagna e Ungheria», scrive il Fatto), in Italia sono stati inconsapevoli bersaglio Michele Santoro e Massimo Giletti per le loro indagini sulla mafia siciliana ma anche chi a Report si è occupato dell'incontro tra lo 007 Marco Mancini e l'ex premier Matteo Renzi. Con qualche aiutino dei Servizi, così almeno maligna lo stesso Mancini. Basterebbe leggersi il bellissimo La Gogna di Alessandro Barbano per capire a che punto è arrivata la notte della giustizia quando ha indagato sull'ex leader Anm Luca Palamara. O sfogliare le perizie di Gioacchino Genchi, che hanno demolito l'affidabilità dei metodi con cui sono state perforate piattaforme teoricamente blindate come Sky Ecc o Encrochat, rendendo quelle chat inutili per condannare - come ha riconosciuto anche qualche sentenza - ma non per sputtanare. Senza contare che certi trojan che si accendono e si spengono a piacere possono potenzialmente creare prove false all'insaputa di chi parla. E il direttore del Fatto Marco Travaglio (nella foto) lo sa benissimo. Nella pesca a strascico a carico dei contribuenti ogni telefonata - persino la più innocua o intima - finisce per essere vivisezionata e manipolata.
Lui si fida così tanto dei suoi amici magistrati senza macchia e senza paura da girare con un cellulare a prova di trojan, un affidabilissimo Nokia per nulla smart, con cui è libero di conversare amabilmente con chiunque. Mentre la giustizia va... a trojan.
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