I fischi per strada sotto Palazzo Chigi, le convocazioni dei pm a caccia di capri espiatori per la pandemia, gli altolà del Pd che gli hanno sgonfiato gli Stati generali: il premier Conte sente che il vento su cui finora ha fortunosamente galleggiato sta cambiando.
Gli alleati lo pressano, il paese ribolle di disagi e rancori, e ora rischia anche di aprirsi il solito carnevale giudiziario pronto a trascinare il governo sul banco degli imputati. Così Conte cerca di risalire la china: in serata annuncia trionfalmente il varo del Family Act, facendo esultare i renziani che lo avevano proposto, ma la concessione a Iv irrita il Pd che reclama lo stralcio dell'assegno unico ma non lo ottienne. Intanto, dopo un brainstormig con Rocco del Grande Fratello, il premier partorisce la sua offensiva mediatica. Per lanciare la kermesse di Villa Pamphili, che stenta a decollare e rischia di trasformarsi in una convention motivazionale lunga dieci giorni, al termine della quale nessuno si ricorderà perché fosse cominciata. E per coprire l'arrivo a Roma, oggi, dei pm di Bergamo per ascoltarlo sulla mancata istituzione delle zone rosse lombarde. Così ieri da Palazzo Chigi è partito un giro di telefonate ai direttori di giornale, per piazzare interviste al premier. Pare che ben cinque testate si siano gentilmente prestate a intervistare il premier. E che alcune di loro si siano anche pentite, dopo aver scoperto che non solo il prodotto non era esclusivo, ma che il premier aveva poco da dire.
Il Pd continua a mordere il freno, sentendo di avere le mani legate: non può permettersi di affondare il premier, e si ritrova coi grillini che dettano legge, forti dei loro numeri parlamentari e del fatto che non si voterà per anni. Negli incontri di ieri con i gruppi di maggioranza, Conte si è dilungato sul suo «masterplan» per la ripresa. Ma, lamentano i dem, «che masterplan vuoi fare se non hai idea di quanti fondi saranno a disposizione? È arrivato con un foglio excel pieno zeppo di titoli, ce lo ha illustrato in lungo e in largo, ma nel suo piano non c'era una cifra che fosse una». Anche perché, a meno di non aumentare ancora la valanga del debito, di soldi a disposizione per quest'anno c'è solo il Mes. E di quello non si può parlare se no i Cinque Stelle si scombussolano.
Il Nazareno preme perché vengano prese decisioni su dossier sempre più esplosivi e sempre rimandati, da Ilva a Autostrade a Alitalia. E soprattutto preme perché venga finalmente presa una decisione sul Mes: altro che ennesimo scostamento di bilancio da dieci miliardi, taglia corto il capogruppo al Senato Andrea Marcucci: «C'è la disponibilità immediata dei fondi del Mes che potrebbero immediatamente liberare le risorse ora impegnate per la sanità. Esistono prestiti da 37 miliardi a condizioni più favorevoli? Se non esistono, dobbiamo dire subito sì al Mes», dice. E anche il governatore emiliano Bonaccini, astro nascente che insidia Zingaretti, insiste: «Quei soldi li vorrei avere ieri e non domani». Ma Conte, atterrito dalle reazioni di Dibba e compagni che continuano a strillare contro la Ue, nicchia: «Prima dobbiamo chiudere l'accordo sul Recovery Fund», dice ai dem, che vorrebbero votare già mercoledì prossimo, quando il premier sarà in Senato per le comunicazioni sul Consiglio europeo, una risoluzione che apra al Mes. Peccato che i soldi del Recovery Fund, se ci saranno, arriveranno solo nel 2021 (anche se il commissario Ue Gentiloni si sta adoperando per tentare di ottenere un anticipo). Ma Chigi frena: nella risoluzione, la parolina «Mes» non deve neppure comparire, è l'ordine alla maggioranza.
Ad alimentare il malumore dem ci sono i mirabolanti sondaggi sul partito di Conte, pompati da Palazzo Chigi: l'ultimo dava la Lista Giuseppi al 15%, il Pd al 12% e M5s appena al 9%: il premier (ribattezzato «il cuculo» in casa Dem) non
prenderebbe quindi un solo voto fuori dal perimetro rosso-giallo, e li ruberebbe tutti ai partiti che lo hanno piazzato, avventatamente, a capo del governo. Il centrodestra vincerebbe. Non proprio un'operazione geniale, insomma.
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